Venerdì 24 agosto (giorno 5-seconda parte)
Pietro accende il motore, lo fa rombare, e dopo poche centinaia di metri non ha più dubbi: l’imperturbabile Rabmobile è tornata lei, la compagna di mille avventure sempre pronta alla milleunesima, la macchina bravissima a invecchiare ma incapace di diventare vecchia. Ricorderemo Nador come la città dove non è male arrivare ma è entusiasmante partire, dove gli hotel sembrano officine ma le officine fanno miracoli, e ci lanciamo a Nord Ovest, diretti al porto di Al-Hocheima. Sono 140 chilometri di un serpentone che si snoda e si contorce tra brulle alture ai piedi del Mediterraneo, quella che altrove si indicherebbe come strada panoramica.
Sabato 25 agosto (giorno 6)
L’Hotel Amir, tre stellone, si affaccia ai piedi dello sperone su cui sorge Al-Hoceima. Ci si arriva con non più di cinque curve a gomito in pendenza del 35 per cento circa e non ci si muoverebbe più dalla caletta, mescolati ai clienti dell’hotel e ai bagnanti locali, riconoscibili perché entrano in mare vestiti di tutto punto e vanno pazzi per le moto d’acqua (purtroppo ci sono anche quelle). In questa prima giornata di riposo incontriamo la prima famiglia di turisti italiani. Lui, avvocato dell’Agenzia delle entrate, non nasconde una certa ammirazione verso il sistema fiscale marocchino: anche qui, come da noi, si registra il meno possibile e non si dichiara niente, salvo la quota fissa prescritta dal Corano; però la cosa è legale. E’ reduce dal Tour completo delle città imperiali con moglie e figlia adolescente al seguito. Una bella esperienza, ma che non ripeterebbe tutti i giorni. E noi? Niente piazza di Marrakech? Niente souk di Fès? Purtroppo no. Gli spieghiamo che siamo di passaggio, che stiamo facendo il giro del mondo contromano, e se ci sono mete imperdibili, pazienza, vorrà dire che le perderemo.
Il souk di Al-Hoceima non sarà quello di Fès, ma con il calare delle tenebre fa la sua porca figura. Ai suoi margini, una schiera infinita di café, uno ogni cinquanta metri. Ristoranti, invece, ciccia. Dopo vari giri dell’oca nel traffico congestionato, arriva l’illuminazione: non è che non si trovano, non sono proprio previsti. Masterchef Marocco? Qui ci sono altre priorità. Qui si va ancora al cafè, come da noi una volta, e i marocchini sono maestri nella semplice arte di stare al café. Sorseggiare un bicchiere di tè alla menta, fumare, guardare la tele senza vederla, guardare chi passa e tacere in gruppo, a tutte le ore di tutti i giorni di tutto l’anno. Alla fine scopriamo una serie di tavolate all’aperto stile festa dell’Unità, con menù fisso: sardine alla brace e insalata di cetrioli.
E tra una sardina e l’altra, un tipo si avvicina al nostro tavolo tendendoci la mano. Ha capito che siamo italiani, ma non è uno dei tanti locali che offrono i loro servizi. Nonostante il volto scavato, la barba grigia e il caffettano ricamato, è italiano anche lui. Si chiama Ernesto, nato a Firenze e sposato con una marocchina. Vive a Issaguen, la capitale della coltivazione della canapa. C’era capitato più di trent’anni fa (chissà perché), e da lì non si è più mosso. Ha una casa-fattoria sulle montagne, qualche ettaro di coltivazione, e ci invita a fargli visita. Sono meno di 100 chilometri da Al-Hoceima, il clima è ideale e le piante sono in piena fioritura. Ringraziamo e accettiamo. Cercavamo giusto una tappa per l’indomani, e grazie a Ernesto l’abbiamo trovata.
(4-continua)