Il mio ultimo post sulla carne artificiale ha avuto moltissimi commenti e molti spunti. Per questo motivo ho deciso di riparlare dell’argomento partendo da due punti fermi: l’attuale consumo di carne nei paesi cosiddetti del primo mondo è eccessivo, e gli impatti ambientali di un kg di carne restano di ordini di grandezza superiori a quelli delle verdure.

Tuttavia, se è pur vero che la carne rossa è caratterizzata da un elevato impatto ambientale, è anche vero che, in una dieta equilibrata come quella mediterranea, il consumo di carne è posizionato al vertice della piramide alimentare (e si consiglia di ridurlo), mentre il consumo di alimenti quali frutta e verdura, caratterizzati da minori emissioni di gas serra, sono alla base della piramide e si consiglia di consumarli più volte al giorno.

Confrontare gli alimenti solo in termini di impatti ambientali però è quantomeno improprio,dato che i diversi cibi non vengono consumati allo stesso modo, e non hanno il medesimo valore nutrizionale. Dal punto di vista dell’impatto complessivo, infatti, i prodotti che causano bassi livelli di emissioni di CO2 ma vengono consumati più frequentemente, come la frutta e la verdura, equivalgono in termini di CO2 prodotta ai prodotti con un alto valore di emissioni ma il cui consumo settimanale è ridotto, come le carni .

Pertanto, per avere minori emissioni di CO2, basterebbe seguire una dieta equilibrata, in accordo con le linee guida nutrizionali, che preveda anche un consumo di carne corretto, di miglior qualità, controllata ed allevata nel rispetto delle regole del benessere animale (tutte cose che esistono già), per non aver bisogno di creare bistecche da cellule staminali.

Un altro esempio provocatorio però lo voglio fare: un biscotto fatto in casa ha un impatto, sempre in termini di emissioni di CO2, molto superiore a un biscotto industriale, perché l’efficienza di un forno industriale è decine o centinaia di volte superiore a quello di casa. Questo non significa che da domani non faremo più un dolce con i nostri figli, ma bisogna riflettere su cosa significhi davvero ridurre l’impatto ambientale delle nostre azioni.

O ancora, l’esempio fatto nel post precedente delle uova provenienti da galline allevate in gabbia rispetto a quelle provenienti da galline allevate a terra: è chiaro che produrre uova in un capannone in cui le galline sono allevate in gabbia, prive della possibilità di muoversi e aventi solo quella di mangiare e deporre è meno impattante in termini di emissioni di CO2, rispetto ad un allevamento a terra, dove le galline possono muoversi e non sono stipate. Dal punto di vista etico e sociale però, le uova da galline allevate a terra, sono certamente più sostenibili, perché realizzate con una maggiore attenzione al benessere animale.

Appare dunque opportuno ricordare come la CO2 rappresenti una visione molto parziale degli aspetti ambientali, e gli esempi fatti vogliono solo far capire la complessità dell’argomento. In altre parole, è evidente che la sostenibilità non possa essere ricondotta alla sola CO2 emessa.

Difficilmente si possono ridurre queste questioni con slogan pro o contro il consumo di carne, l’energia nucleare ecc.. La sostenibilità necessariamente deve trovare una sintesi fra le diverse dimensioni che la compongono: sociale, economica, ambientale e istituzionale.  Il vero problema globale, però, è il modello di crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite. Per questo, a chi ha tempo e voglia, consiglio la visione del film “L’ultima chiamata”.

PS: onde evitare di far perdere tempo a qualcuno, ribadisco che “Il Fatto” mi ospita a titolo personale, per la mia esperienza sulle tematiche di sostenibilità.

 

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