Anche il Regno unito – Paese che vanta uno dei più alti tassi di occupazione femminile in Europa – si accorge di un fenomeno spesso non denunciato: oltre 50mila donne, ogni anno, perdono il posto dopo una gravidanza, a causa della discriminazione da parte dei datori di lavoro. I dati, che provengono dalla Camera dei Comuni, la camera bassa del parlamento britannico, mostrano come circa il 14% delle quasi 350mila donne che in media ogni anno vanno in congedo di maternità abbia perso il posto di lavoro per quello che a Londra viene chiamato “sexism”. Ovvero, discriminazione di genere, che pare farsi molto più forte quando una donna rimane incinta. Ma non c’è solo la perdita del posto: secondo la ricerca dei Comuni, spesso le donne vengono reintegrate in ruoli inferiori, vengono demansionate oppure vengono “immobilizzate” in situazioni in cui non vi è alcun progresso di carriera. Eppure, denuncia ora la stampa britannica – soprattutto The Independent – “con queste regole non si va da nessuna parte”. Una recente legge del governo guidato da David Cameron ha infatti imposto una “tassa” di 1.200 sterline per portare un eventuale caso di discriminazione di genere in un tribunale del lavoro.
Così, accusando il partito conservatore al governo, ora il Labour va all’attacco. Yvette Cooper, ex ministro laburista e prima donna di governo ad andare in maternità durante un mandato, ha scritto un editoriale proprio per The Independent. “Anche io, quando sono rimasta incinta, ho avuto molti problemi con il mio lavoro. Il mio partito deve battersi per rendere il licenziamento delle donne più difficile, così come per procurare alle madri una cura dell’infanzia più economica ed efficiente”. Ma Cooper ha accusato anche uomini del partito. “Quando ho avuto il mio terzo figlio, alcuni funzionari hanno trattato la mia maternità con ostilità, cercando persino di cambiare il mio contratto di lavoro. Ho vinto la battaglia, ma quando sei incinta ed è estate e fa caldo, oppure quando un bambino è appena nato e di notte non dorme, si dovrebbe pensare a ben altro”. Eppure, parrebbe in atto un vero e proprio accanimento da parte dei datori britannici. Un sondaggio effettuato per conto di uno studio legale londinese ha mostrato come al 25% delle donne venga rifiutato il part time e come il 50% delle donne tornate al lavoro dopo una gravidanza abbia dovuto accettare nuovi ruoli con minori – e meno pagate – mansioni.
Ma se le donne britanniche piangono, quelle italiane non stanno di certo meglio. Non esistono dati molto recenti in Italia, ma uno studio dell’Istat pubblicato nel maggio 2011 aveva mostrato come, in due anni, fra il 2008 e il 2009, ben 800mila donne fossero state costrette a dimettersi o fossero state licenziate – il dato non è scorporato, tuttavia – in seguito a una gravidanza. Secondo l’Istat, quindi, l’8,7% delle madri lavoratrici italiane, nei due anni di riferimento, era stato costretto a rivedere il proprio progetto di vita, una percentuale che saliva al 13,1 per le madri nate dopo il 1973. Sul web abbondano siti e portali dedicati alle lavoratrici, che spesso forniscono consigli da parte di studi legali su come comportarsi in caso di licenziamento. Le cause di lavoro sono quasi sempre possibili, anche se pare molto difficile colmare il gap di stipendio. Sempre nel 2011, l’Istat certificava la differenza di salario fra uomini e donne del Belpaese: 20% in meno per le lavoratrici rispetto ai lavoratori. Fino a quando non rimangono in dolce attesa, chiaramente.