Cultura

Festival di Venezia 2013, le prime perle (e soddisfazioni) dalle sezioni collaterali

A Venezia 70 non sono solo concorso e star a lasciare traccia. Ne fanno esempio un terzetto che assai diversamente affronta la discriminazione del diverso e il tentativo di formare una società più matura e integrata a partire dalla scuola. Parliamo di Piccola patria di Alessandro Rossetto, La mia classe di Daniele Gaglianone e Class Enemy di Rok Biček

di Anna Maria Pasetti

Ci sono piccole patrie e grandi classi. A Venezia 70 non sono solo concorso e star a lasciare traccia. In queste giornate iniziali le soddisfazioni arrivano (soprattutto?) dalle tre sezioni collaterali che – ironicamente – propongono opere in qualche modo reciprocamente intersecate. Ne fanno esempio un terzetto che assai diversamente affronta la discriminazione del diverso e il tentativo di formare una società più matura e integrata a partire dalla scuola. Parliamo di Piccola patria di Alessandro Rossetto (sezione Orizzonti), La mia classe di Daniele Gaglianone (Venice Days – Giornate degli Autori) e Class Enemy di Rok Biček (Settimana della Critica).

Film che oggi si userebbero definire “glocal”, essendo profondamente radicati sul territorio ma con un respiro universale a garanzia di qualità di un cinema contemporaneo dalle esigenze sempre più sofisticate. Due italiani e uno sloveno, ma anche due esordi in lunghi di finzione (Rossetto e Biček) e un autore ormai navigato (Gaglianone) che con coraggio non desiste dalle ricognizioni più delicate. Il discorso che il documentarista e antropologo padovano Alessandro Rossetto (nella foto con il cast) compie sul “suo” veneto è radicale: di “piccolo” in quella “patria” allocata nel nordest della Penisola è solo la mentalità, ostinata alla chiusura di case&cose nell’individualismo, contrastando con ogni mezzo la penetrazione dell’estraneo – per lo più identificato con l’immigrato di pelle, cultura e lingua diversi. In discussione è un sistema di valori che coinvolge ogni generazione, protesa a perpetrare violenza distruttiva per sé e gli altri.

Poteva essere un nuovo documentario sociologico-politico: il regista invece ha optato per la finzione, creando personaggi a tratti estremi che mettono in risalto le mille contraddizioni di un sistema pronto ad esplodere. In scena, peraltro, la nascita e il rafforzamento di una sorta di Liga Veneta, portavoce di una visione di mondo razzista e nazionalista. Seppur imperfetto – anche per la volontà di inserire troppi elementi in un solo film – Piccola Patria si inserisce tra gli esordi italiani più coraggiosi del momento. Dal particolare del privato (la storia si focalizza soprattutto su una ragazza, la sua famiglia e il rapporto d’amore con un immigrato romeno) al generale della comunità, il film ci ricorda attraverso panoramiche aeree sulla “piccola patria” veneta accompagnate da canti locali che “riguarda tutti, e sono storie che sarebbero potute accadere in una qualsiasi provincia del pianeta”, chiosa l’autore.

E in ogni angolo del pianeta possono accadere i “fatti” che si consumano in due scuole – anzi – proprio in due classi, ben rappresentate dal docufilm di Gaglianone e dall’esordio dell’appena 28enne Biček. Il primo è letteralmente la messa in scena di un esperimento (in)formativo che produce un dispositivo di meta-cinema assai originale. Valerio Mastandrea è immortalato mentre interpreta un professore di italiano presso una classe per stranieri: a quelle scene si alternano sequenze del backstage, ove lo stesso regista torinese appare inquadrato.

Gli attori sono non-professionisti, ovvero autentici studenti stranieri (spesso in attesa di permesso di soggiorno) impegnati ad apprendere il nostro idioma. Ne escono differenze ma inevitabili similitudini del “diverso” che tenta ogni strada legale e dignitosa per farsi accettare. In altre parole, per arricchire il nostro Paese di nuovi valori culturali. Una classe pressoché di giovani, seppur eterogenea in ogni altro senso che non sia l’esser “straniero”, quella di Gaglianone si accosta ai liceali sloveni del solido film Class Enemy per la volontà di metter in scena il tentativo di formare persone migliori, ad ogni costo. Anche e soprattutto laddove s’inasprisce un conflitto tra un professore di tedesco e un gruppo di studenti in seguito al suicidio di una compagna. “Il mondo non è né bianco né nero”. Un detto che sembra banale, ma in cui si racchiude ancora oggi tanta verità. 

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