Bisogna vederlo da vicino per rendersi conto cosa sia un divo. Nicolas Cage sbarca sul red carpet del Lido di Venezia e nonostante l’anello con brillante, i collanoni e la taciuta rigenerazione follicolare, brilla di una luce che non si sa bene da dove arrivi che nemmeno il Re Sole. Protagonista assoluto di “Joe”, film in Concorso diretto da David Gordon Green, scippato coi denti al festival di Toronto, Cage conferma tutta la sua maestosa baldanza fisica dopo che sullo schermo lo abbiamo visto con folta barba e zeppo di tatuaggi.
Così se in “Cuore Selvaggio” e “Via da Las Vegas” l’uomo del clan Coppola trasmetteva ingenua innocenza, oggi con uno sguardo glaciale e incazzoso, e dopo numerose peripezie action con John Woo e pletore di templari, ad avvicinarlo incute timore. In Joe, Cage è il beautiful loser omonimo che taglia coca-cola con whisky, fuma l’impossibile, posa almeno cento chili di muscoli in una casetta della periferia di Austin (Texas) menando fendenti a chi gli vuol male e a chi impedisce all’adolescente Gary (Tym Sheridan già visto sul set di Malick) di crescere libero.
Joe, drammaturgicamente parlando, è tutta una questione tra padri e figli: Gary e il vecchio cattivo, sporco e alcolizzato papà; Gary e Joe, che all’inizio del film per il ragazzo è solo un saltuario datore di lavoro. Intenso e duro il racconto tratto dal libro di Larry Brown incentrato proprio sulla figura di Joe/Cage, ex galeotto dal pugno facile, ma dalla parte “giusta”, su questo sfondo southern belt dove si scuoiano cervi e ci si picchia ancora nei saloon: “Joe trascura il codice civile, ma ha una sua cultura, una sua legge”, spiega Gordon Green, “ho voluto creare una sorta di western in cui quest’uomo cerca una redenzione attraverso la forza che esternamente trasmette al giovane ragazzino vessato da suo padre”.
Un Cage in forma splendente sul set che punta dritto alla Coppa Volpi del Festival come miglior attore (la dinamica film/interpretazione ricalca un po’ quella di The Wrestler/Mickey Rourke), e ringrazia Green, ex enfant prodige del cinema indipendente Usa che per questo lavoro si è tenuto lontano dagli studios hollywoodiani sia in termini produttivi che distributivi.
Un altro che dagli studios ci è stato lontano è Paul Schrader. Storico sceneggiatore di capolavori (Taxi Driver e Toro Scatenato), il regista di altrettante perle miliari come American Gigolo e Auto Focus ha presentato a Venezia – Fuori Concorso – “The Canyons” su sceneggiatura del romanziere “maledetto” Bret Easton Ellis.
Fascinosa la coppia Schrader-Ellis presente a Venezia, percepibile l’alchimia a suo modo sperimentale tra i due: The Canyons, sorta di noir contemporaneo imbevuto di sesso, porno star e voglia di cinema, è stato prima di tutto una scommessa produttiva indipendente con la raccolta del budget del film – 160 mila dollari – sulla piattaforma Kickstarter. “Il cinema sta cambiando pelle, tutto ciò che sappiamo del passato non si applica più”, ha spiegato Schrader, “Forme e formati mutano senza tregua e Internet soppianterà i cinema nella fruizione”. The Canyons si apre proprio con gli scheletri di numerose sale cinematografiche statunitensi chiuse ed abbandonate, mentre il set è la Los Angeles di Muholland Drive e Melrose dove pasteggiano i divi, e dove il protagonista del film, il produttore Christian (James Deen, vera star del porno più estremo in Usa, ndr.) affronta drammaticamente il suo rapporto con l’attricetta Tara, una Lindsay Lohan sempre più Joan Collins assente peraltro al Lido: scambi di coppia, ritorni di fiamma, ammucchiate hard, ritmate da sms sugli smartphone e dalle mail sul web, per stabilire chi ancora governa, per così dire, in famiglia.
“Qualcuno ha riso durante il film e me lo aspettavo”, ha chiosato Easton Ellis, “i personaggi vivono in una specie di soap opera, anche se in The Canyons ci sono punti ridicoli e punti più noir. Di certo non posso chiedere scusa di aver scritto un film su un gruppo sociale che mi affascina”.