Politica

Senatori a vita: su 47 nominati, due hanno rifiutato. Toscanini e Montanelli

Il musicista e il giornalista preferirono dire "no". Perché sin dagli albori della Repubblica i partiti si sono "impadroniti" di quelle nomine per trasformare figure di garanzia della Repubblica in pedine. L'uno declinò nel '49 contro "l'accaparramento di onoreficenze"; l'altro per "mantenere le distanze dal potere"

Senatore a vita? No, grazie. Mentre la politica festeggia le quattro nomine decise dal presidente Napolitano per riempire le caselle vuote di Palazzo Madama, si torna a parlare del valore e del significato di questo rito che appartiene di nome alla Costituzione e di fatto alla politica, come del resto sta accadendo da ore, con i nomi di Abbado, Cattaneo, Piano e Rubbia. Dopo la nomina si scatenano le opposte tifoserie. Ma nella storia italiana almeno due protagonisti della vita pubblica, in tempi diversi, hanno detto “no, grazie”: Arturo Toscanini prima e Indro Montanelli poi, per ragioni molto simili hanno preferito rinunciare alla carica. “Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa”, risponde il 6 dicembre 1949 a Luigi Einaudi Toscanini, 88 anni, trascorsi realmente a “illustrare la Patria per altissimi meriti“.

L’appropriazione dei partiti, dagli esordi della Repubblica a Monti 
Ma che cosa rappresenta un senatore a vita? Perché ogni volta che si insedia un presidente – ogni due volte, nel caso di Napolitano – si pone il problema di quelle cinque poltrone da riempire? Intanto si tratta di un “nominato”, concepito dai padri costituenti per “temperare” gli equilibri negli organi parlamentari. Innanzitutto distinguere la Camera dal Senato e mantenere per quest’ultimo alcuni dei caratteri che aveva nello Statuto albertino. La Camera era il “ring”, avrebbe cioè adottato le leggi che riflettevano gli umori del Paese e dei partiti politici. Il Senato, per contro, era una specie di camera di compensazione che esamina le leggi con più tempo, saggezza e distacco garantiti dalla sua diversa composizione (per questo si decise che gli elettori avrebbero avuto non meno di 25 anni). I senatori a vita, in questa logica, dovevano essere i garanti supremi di questa differenza qualitativa. E  la loro presenza era suggerita (il presidente “può” nominare)  ma allo stesso tempo moderata (gli ex presidenti della Repubblica, più cinque di nomina presidenziale). Detto questo, le intenzioni dei costituenti furono presto stravolte e le due camere iniziarono a fare le stesse cose.

La carica del senatore a vita è diventata così, nella migliore delle ipotesi, era una sorta di superdecorazione. La situazione è peggiorata ulteriormente dai tempi di Toscanini. La classe politica ha cominciato a servirsi dei senatori a vita per premiare se stessa, cooptare figure influenti o portare in Parlamento persone ancora in servizio permanente effettivo nel partito senza farle passare dalla porta maestra delle campagne elettorali: ad esempio, su 47 nominati dal 1949 ad oggi, Fanfani e Andreotti. La nomina di Mario Monti da parte di Giorgio Napolitano è stata un caso esemplare: accompagnata dalla solita retorica serviva in realtà a issare Monti sulla poltrona della presidenza del Consiglio e  inaugurare la stagione delle larghe intese cara a Napolitano (che non a caso) sarà rieletto un anno e mezzo dopo coi voti uniti di Pd e Pdl.

Montanelli, i senatori di diritto e a vita e il potere
Che i senatori a vita fossero ormai diventati pedine della politica lo certifica l’altro grande rifiuto, quello di Indro Montanelli. Il suo nome lo fa Cossiga nel 1991. Il giornalista non manderà telegrammi, ma userà la penna, come sempre, per spiegare il suo “no, grazie”. In un articolo del Messaggero di dieci anni dopo spiegherà così il suo rifiuto: “Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una certa distanza”. Da allora nulla è cambiato, il senatore a vita è rimasto immerso nel potere. Infinitamente si è discusso su limiti e prerogative della loro azione in Parlamento. Alcuni hanno preteso di votare i presidenti della Camere, altri di entrare e deliberare nelle commissioni (Ciampi ad esempio). Altre volte i partiti hanno preteso da loro voti secondo schemi di preordinata convenienza. Si ricorderà la campagna del centrosinistra per assicurare che Rita Levi Montalcini, insieme ad altri cinque senatori a vita, consentisse col suo voto a tenere in piedi il governo Prodi II, nonostante una maggioranza risicatissima. E si ricorderà il “le porteremo le stampelle” di uno Storace che puntava il dito contro le “indebite pressioni” per fare di un senatore a vita un voto e poco più.

I giuristi hanno dibattuto a lungo sul reale significato dell’art. 59 comma 2 della Costituzione, se il limite di cinque senatori sia  da intendersi come limite massimo di nomine a disposizione di ciascun presidente oppure limite massimo di senatori a vita presenti in Senato. Ogni presidente nella storia d’Italia ha risolto il dubbio a modo suo. Einaudi, per dire, esercitò il diritto di nomina otto volte, Pertini seguì invece la prima interpretazione e si limitò a cinque e lo stesso fecero Cossiga, Ciampi e Napolitano. Scalfaro invece non fece nomine. 

Ma il concetto di fondo resta, un senatore a vita è pur sempre un voto utile e una possibile pedina dei partiti sin dagli albori della Repubblica. Salvo Toscanini e Montanelli, due su 47. Ma diversi, loro, lo erano davvero.