“Di’ dunque, sventola ancora la nostra bandiera adorna di stelle sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi?” Duecento anni fa Francis Scott Key consegnava agli Stati Uniti d’America la missione di essere il faro del mondo, scrivendo il testo del più famoso inno nazionale del pianeta. Oggi, al concorso della 70ma Mostra di Venezia quelle righe di ‘The Star-Spangled Banner’ suonano da sintesi di una domanda che d’urgenza rintrona il cervello dopo la visione di due film diversamente sintomatici di una radicalità distruttiva. Che da quel “faro” parte e ritorna come un girone infernale di remote speranze e che inevitabilmente implica una (ri)messa in discussione / distruzione del sistema vigente. Parliamo di “Child of God” di James Franco e “Night moves” di Kelly Reichardt, due autori colti e impegnati socio-politicamente e dunque non a caso accostati sul red carpet di questo caldo sabato al Lido veneziano.
Liberi e coraggiosi, appunto. Ma a quale prezzo? Sia la libertà del “troll delle montagne” tratto dall’omonima opera terza di Cormac McCarthy che il coraggio dei tre radical-ambientalisti di “Night moves” conducono a follia, solitudine e violenza estreme. Certo, correva l’anno 1973 quando lo scrittore pubblicò “Child of God” (in Italia “Figlio di Dio”, Einaudi) ma quel suo balordo freak Lester Ballard è più attuale che mai, superstite di un’apocalisse di valori, una guerra atomica che risparmia solo caverne e cadaveri da rivestire. Il “divo”, ma ormai navigato e ipertrofico regista californiano James Franco se ne appropria attraverso due ore di cinema con un one-man-show che grugnisce, urla, spara, si fa le seghe davanti ai cadaveri (o se li scopa direttamente) e poi fugge in preda a una disperazione infinita.
Scott Haze è l’attore prescelto da Franco, generoso nel dimenarsi e compiere ogni sorta di nefandezza a comando. Negli ultimi tempi – tra un blockbuster da star e l’altro – James Franco ha assunto il vizio della cine-trasposizione dalla grande letteratura americana, tanto da farci una trilogia, perché “Child of God” di McCarthy si pone al centro tra il già realizzato e visto quest’anno a Cannes “As I lay dying” tratto da Faulkner e il biopic work-in-progress su Bukowski. Il territorio di Lester Ballard secondo Franco è fedele a un immaginario primordiale articolato, che va da “Psycho” a “Non aprite quella porta“, come già il realmente vissuto serial killer Ed Gain a sua volta ispirò, oltre al volume di McCarthy. Filologie a parte, il film trasuda di ossessioni, nervosismi e concessioni al voyerismosenza tregua, esibendo un’opera alquanto auto-riferita e indigesta anche ai palati più allenati.
Di tutt’altro stile appare il lavoro dell’autrice/docente universitaria Kelly Reichardt da Miami, che dopo aver portato il poderoso “Meek’s Cutoff” a Venezia nel 2010, si fa ispirare dagli agricoltori/allevatori ecologici estremisti dell’Oregon del Sud per mettere in scena – con un cinema raffinato ma senza osare abbastanza – gli effetti catastrofici di azioni di nobili intenzioni ma pessimamente gestite. E, diciamolo subito, non serve leggere le note di regia per riconoscere nei tre protagonisti (interpretati dai divi Jesse Eisenberg, Dakota Fanning e Peter Sarsgaard) tratti “psico-somatici” di membri del terrorismo americano e non solo. Evidenti le ispirazioni ai ‘Weather underground’ (che vanno di moda, visto che lo scorso anno sempre al Lido passò il film di Robert Redford su di loro) e ai ‘Black panthers’. Dopo aver fatto esplodere una diga idroelettrica come gesto sovversivo, e causato la morte di un campeggiatore al posto sbagliato nel momento sbagliato, i tre sono assaliti dai sensi di colpa, arrivando a mettersi fatalmente l’uno contro l’altro. Ferma restando la differenza tra sane radicalità e malsani radicalismi, diventa chiaro che questi ultimi sono nocivi anche alla salute del cinema.