Qualcuno ricorda l’abigeato? Voleva dire rubare a un contadino e a tutta la sua famiglia il bestiame, cioè la vita. Le pene erano severe, e la sanzione sociale durissima: espulsione dalla comunità, perché in quel reato si coglieva disprezzo e crudeltà: intaccavano il legame umano e i doveri fondamentali del vivere accanto. Il furto della fabbrica è più grave. Lo è perché è fondato sull’inganno e perpetrato da persone che restano rispettabili. Torni dalle ferie e trovi un lucchetto ai cancelli, non c’è più il nome della ditta o della persona. Se riesci a entrare, trovi i capannoni vuoti. Tutte le macchine sono state portate via. A volte accade che qualcuno si trovi a passare davanti alla sua fabbrica mentre dovrebbe essere “in ferie”, e scopra il furto in corso, veda con stupore incredulo che stanno caricando le macchine del suo lavoro su camion senza identificazione, forse vendute, forse in trasferta, per un altrove sconosciuto. Succede che si possano radunare altri operai e bloccare il trasloco, ma quando te ne accorgi non sei mai in tempo.
Per questo furto, più grande del furto rubricato dai codici, non esiste “flagranza di reato”. Qualcuno, che tu credevi il tuo “principale” ha venduto, e qualcuno ha comprato, e poi qualcun altro, e nessuno si farà vivo per spiegare la storia. È una storia macabra con tre vergognose spiegazioni; liberarsi della fabbrica senza tante storie sindacali, vendendo il macchinario; cedere la fabbrica a qualcuno che la rivende a qualche altro finché non si trova più il padrone (e intanto nessuno paga i dipendenti, persino se il lavoro continua e l’organizzazione del lavoro rimane intatta); delocalizzare l’impianto, che vuol dire che io continuo a produrre, ma con altri operai, in un altro Paese, dove non esistono leggi del lavoro. C’è anche l’imprenditore del tutto persuaso di avere diritti medievali che dice agli ex dipendenti che protestano: “Se volete, io vi riassumo in Polonia. Qui costa troppo”. E così si torna alle due superstizioni che umiliano sia chi le dice sia chi se le sente dire (e inutilmente due premi Nobel come Amartya Sen e Joseph Stiglitz le hanno confutate da anni): “Il lavoro si salva solo se ha più flessibilità” (vuol dire che, se l’avesse, non ci sarebbe bisogno di andare in Polonia, basterebbe licenziare e poi riassumere pagando la metà dei salari). E: “Il nostro vero problema è il costo del lavoro”. La frase è falsa fin dall’inizio (i salari italiani sono sempre stati i più bassi in Europa).
Ma c’è di peggio dello scarico di responsabilità dai padroni ai dipendenti, dai dirigenti ai lavoratori di una fabbrica, dove l’incapacità di amministrare e di vendere viene gettata addosso a chi scrupolosamente provvede a produrre. Il furto della fabbrica, infatti, avviene quasi sempre mentre non solo i lavoratori, ma anche i fornitori e i clienti non hanno alcuna ragione di sospettare, e infatti, inizia regolarmente per tutti il periodo di “ferie”. Nessuno ne parla in anticipo perché si tratta di una azione ovviamente vergognosa, che però non trova nella vita sociale alcuna censura e in quella giuridica alcuna condanna, benché vi siano varie evidenti violazioni di natura penale e civile. Il fatto è che rispettati economisti spiegano la delocalizzazione come inevitabile effetto della globalizzazione, che consente – e anzi suggerisce – di spostare la propria fabbrica dovunque sia più conveniente per le buste paga. E infatti si sono creati nuovi luoghi di schiavitù, come i centri di produzione di Taiwan e molte fabbriche cinesi, in cui i suicidi degli operai sono molto frequenti, quando i lavoratori riescono a raggiungere i piani alti delle loro prigioni di lavoro. Spiego in che senso ho detto “prigioni”. Dovunque si uniscono, con una ferrea e assurda alleanza Stato e impresa, impegnati ad abbassare drasticamente le paghe con un dirigismo che è l’opposto del libero mercato, le condizioni di chi lavora diventano lavoro forzato e il legame con il posto di lavoro, pagato una miseria per un numero sproporzionato di ore, diventa una caienna.
La catena delle vendite false (ovvero di cessioni di fabbriche in sequenza per far perdere le tracce di un responsabile), è l’altro problema che ha coinvolto anche aziende con intatta reputazione e capacità produttiva, e senza alcuna perdita di quote di mercato. Si tratta di un irresponsabile progetto di abbandono di impegno imprenditoriale e di rapida e clandestina capitalizzazione di valori ben più grandi (per non parlare delle persone). Moralmente è un fenomeno spregevole, molto simile a quello dell’abbandono dei cani in autostrada. Legalmente, la clandestinità o semi clandestinità dell’operazione, solo in apparenza ammissibile, dovrebbe essere intercettata da norme civili e penali che costringano alla continua identificazione pubblica dei passaggi, delle responsabilità, degli intenti.
Lo svuotamento estivo di uno stabilimento a cui vengono segretamente asportate le macchine dovrebbe essere considerato un vero furto ai cittadini e non solo al lavoratori, se si pensa al reticolato di impegni e doveri che una impresa stabilisce con il luogo e le persone del luogo in cui si è insediata, compresa l’apertura di negozi e di altre imprese. Non credo che politica, Stato e governi locali debbano osservare a distanza, come se si trattasse della forza brutale del “mercato”: si tratta di furto.
Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2013