Questa volta la stampa è piuttosto compatta: è proprio scorretto, violento e anche un po’ vigliacco dare voce in un film a un ex terrorista come Giovanni Senzani per rievocare i bui e tristi anni Settanta e Ottanta, quelli dell’apogeo delle Brigate Rosse. Così da Libero a L’Unità, da La Stampa al Fatto, tutti a dare addosso a Pippo Delbono e al suo film Sangue, presentato e premiato all’ultimo Festival di Locarno, a metà agosto e ora programmato per alcune presentazioni a Roma (dove viene proiettato questa sera in Piazza Vittorio alle 20,30, seguito da un incontro con lo stesso Pippo Delbono) e a Milano (dove passerà il 24 settembre).

Peccato che tutti o quasi tutti quelli che sono intervenuti in questa polemica non abbiano visto il film e parlino perciò per sentito dire. Ora, se c’è un tradimento che si può fare al cinema di Pippo Delbono, un cinema non pacificato né pacificante, un cinema carnale che trasuda sensi, respiri, odori, umori da ogni immagine, è quello di parlare dei suoi film senza averli visti.

Delbono gira i film con i telefonini o con telecamere leggerissime: questo gli dà la possibilità di “attaccare” il suo corpo all’immagine, di fare dell’immagine una protesi del corpo, che diventa ora il luogo di una sensualità, ora quello di una sofferenza, ora quello della verità. Non si può mentire con il corpo, e nemmeno con l’immagine, con questa immagine.

Sangue è una storia di vita (di vite) e di amore: vita vissuta, cercata, riconquistata attraverso il passaggio dalla morte, “dentro” questo passaggio stesso. Il film comincia e finisce a L’Aquila, la città morta delle promesse tradite, una città orfana, come orfano diventa lungo il film Pippo, che filma il lento avvicinarsi alla morte, e poi la morte stessa della madre, e poi, ancora, con durezza e dolcezza la sua camera ardente, fino alla saldatura e chiusura della bara. Nella morte si possono ricercare i segni, le tracce, le radici di una nuova vita, della vita stessa. Così, una delle prime sequenze – quella dei funerali del brigatista Prospero Gallinari, al quale Pippo partecipa con Giovanni Senzani – ha per sfondo un paesaggio lividamente invernale, coperto dalla neve, in un’immagine decolorata (la morte toglie ai corpi prima di tutto i colori) mentre in sovrimpressione compare il titolo del film in lettere rosso sangue. La camera, sempre mobile proprio per questa aderenza all’occhio, segue da lontano il corteo, poi se ne stacca e cerca: si muove verso l’alto a inquadrare alberi scheletriti contro un cielo bianchissimo e cupo. Nella morte ci sono tracce di una vita che si arrampica.

Poi il film parte, si compone quasi per falde, con un montaggio che dà respiro anche musicale (bellissimo e carico di dolcezza tra l’altro l’incastonamento delle musiche nelle immagini) a ogni sequenza e con una drammaturgia nitida e poetica, come Delbono usa fare anche in teatro. Senzani entra in scena, segue Pippo a Parigi, non guarda mai in macchina, è difficile tenere lo sguardo dell’altro quando si cerca dentro se stessi. La camera lo segue, lo scava, ne inquadra le mani nervose che si attaccano l’una con l’altra (quale sarà la mano toccante e quella toccata?, diceva Merleau-Ponty), si stringono, si torturano quando l’ex brigatista rievoca il suo passato. Non c’è pentimento, nel senso giudiziario né nel senso religioso in questo percorso di Senzani, ma c’è il peso della vita che ha dato la morte e che si deve ritrovare proprio ripassando attraverso quella morte. Intanto, come la madre di Pippo anche Anna, la moglie di Senzani, sta morendo di cancro, in un Fuori Campo radicale (non la vedremo mai, se non nel finale, trasformata in cenere…).

La carne del film (un precedente, bellissimo film di Delbono si intitolava Amore carne) è il percorso verso la morte e, attraverso di essa, verso la vita. Nell’ultima parte la madre è ormai nei momenti finali: le riaffiorano ancora sulla bocca le parole di Sant’Agostino sulla vita e la morte che già aveva citato, ma ora non sono che un sussurro. Pippo cerca le mani di lei, le stringe: ormai le mani sono quasi chiuse, non si aprono più, la mano di lui prova a riaprirle, in un primissimo piano che gronda angoscia, mentre fuori campo si sente l’ansimare di Pippo, mangiato dal dolore: “In quei giorni – dice la sua voce in sovrapposizione sonora – dovevo filmare, sempre. La camera era come un occhio lucido che guardava. Mi aiutava a non farmi trafiggere e abbandonare totalmente a quel dolore enorme”. Il cinema può essere strumento di difesa e di ricerca della verità, luogo di salvezza. Basta saper guardare.

Cadono le maschere: muore la madre di Pippo, muore Anna, la moglie di Senzani. Anche lui si trova solo, di fronte a una camera che lo scruta, lo indaga mentre lui non riesce a tenere il suo sguardo di fronte. Eppure bisogna cercarlo, questo sguardo, per trapassare il proprio passato: così nasce la rievocazione della terribile uccisione di Roberto Peci, il fratello dell’ex brigatista Patrizio, il pentito che contribuì a smantellare le Br. E’ questo momento del film che ha fatto gridare allo scandalo la stampa. Ma estrapolarlo dall’intero film vuol dire tradire il cinema, e anche gli uomini che lo fanno, qui come percorso di ricerca di verità. A prescindere dalle idee che hanno avuto.

Infine ancora L’Aquila squarciata. La camera “tocca” anche qui: le rovine, i lavori abbandonati, le schegge di pietra cadute e mai più mosse, quasi a cercare con ansia “le mani” sofferenti di questa città morta che sembra la fine di tutto. Ma la forza che ci tiene in vita, dice Pippo mentre percorre quel paesaggio devastato, è più forte di quella che vuol farci morire: nessuno può sfuggire alla vita, nemmeno con la morte.

 

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