È ad alto rischio politico, e senza un esito certo, la decisione di Barack Obama di affidare al Congresso il sì definitivo sull’intervento in Siria. Se negli ultimi giorni Obama si è guadagnato l’appoggio delle leadership di democratici e repubblicani, molto più difficile appare il compito di conquistare il voto della maggioranza di deputati e senatori. Anzi, a partire dal 9 settembre, quando il Congresso tornerà dalla pausa estiva e inizierà l’esame della richiesta di autorizzazione per la guerra in Siria, Obama si troverà di fronte a uno dei momenti più difficili della sua vita politica. Il calcolo che l’ha condotto a coinvolgere il Congresso nell’intervento potrebbe a quel punto rivelarsi un boomerang di difficile gestione.

Un primo problema per il presidente risiede nei rapporti tradizionalmente difficili, in alcuni casi tempestosi, con la Washington politica. Obama non è mai riuscito a entrare in sintonia con gran parte del monde democratico del Congresso, che lo ha spesso accusato di scarsa attenzione, in alcuni casi di esibita altezzosità: in più, il presidente ha combattuto battaglie epiche e faticosissime con buona parte di senatori e deputati repubblicani. E’ stata soprattutto la Camera, a maggioranza repubblicana, il vero centro dell’opposizione alla Casa Bianca. Dalla riforma sanitaria a quella dell’immigrazione, sono stati tanti gli episodi che hanno visto i deputati repubblicani scagliarsi contro le scelte del presidente. In vista, per le prossime settimane, c’è un altro scontro che promette scintille: quello sul budget. “Spero che i membri del Congresso capiscano che certe cose sono più importanti delle differenze partisan o della politica del momento”, ha detto Obama, riconoscendo la possibilità di nuovi conflitti.

Se il presidente sembra aver vinto l’appoggio convinto di Henry Reid e Nancy Pelosi, leader democratici di Senato e Camera, oltre a quello dello speaker repubblicano della Camera, John Boehner, molto più difficile è capire quanto tranquille saranno le truppe parlamentari. Un segnale non proprio positivo è arrivato qualche giorno fa, quando Mike Rogers, repubblicano della Commissione Intelligence della Camera, ha spiegato che Obama aveva mancato due obiettivi centrali per l’intervento in Siria: “informare Congresso e opinione pubblica”. I repubblicani della Camera potrebbero quindi trovare politicamente fruttuoso trascinare Obama nell’ennesimo scontro, indebolendolo politicamente alla vigilia del dibattito sul budget.

Un altro effetto non controllato e non controllabile dell’appello di Obama al Congresso riguarda gli schieramenti politici, riflesso di quelli nell’opinione pubblica. Quando Bush trascinò gli Stati Uniti nella guerra in Iraq le posizioni erano chiare e definite: gran parte dei repubblicani a sostenere la politica interventista del commander-in-chief; gran parte dei democratici a respingerla in nome di un approccio multilaterale alle questioni internazionali. Bush vinse le presidenziali 2004 soprattutto sulla base di un’accusa: quella alla “debole” politica estera di John Kerry e dei democratici. Oggi quel panorama politico non esiste più.

Le guerre in Iraq e Afghanistan e gli immensi costi sociali ed economici pagati dagli Stati Uniti, hanno sparigliato le carte. Oggi, al Congresso, un ipotetico fronte anti-guerra in Siria potrebbe comprendere settori democratici tradizionalmente pacifisti e frange repubblicane vicine al Tea Party e di ispirazione libertarian. Paradossalmente, altri problemi potrebbero venire proprio da quei “falchi” che ora appoggiano l’opzione militare ma che potrebbero trovare troppo timida l’azione di Obama, che ha detto di voler un attacco “limitato per durata e scopo”. Un anticipo delle obiezioni dei settori più interventisti è venuto dai senatori John McCain e Lindsay Grahm, che in una dichiarazione congiunta hanno spiegato che non voteranno a favore dell’autorizzazione di guerra a meno che questa non comprenda “la rimozione di Bashar al-Assad”. In altre parole, per i “falchi” la ritorsione per l’uso delle armi chimiche non basta. L’obiettivo in Siria deve essere quello del “regime change”.

Restano, a complicare l’azione di Obama, due elementi. Il primo riguarda ovviamente l’opinione pubblica Usa, in particolare l’elettorato democratico e indipendente che l’ha portato per due volte alla Casa Bianca. Tutti i sondaggi mostrano un dato inequivocabile: la maggioranza di questo elettorato è contraria all’intervento. Obama ha poco più di una settimana per convincere questa maggioranza di americani, ma il compito pare quasi impossibile, considerato che il presidente ha vinto per due volte la rielezione proprio sulla base di un argomento: il ritiro dal Medio Oriente. L’altro elemento ha a che fare con la Costituzione e con i rapporti con il potere legislativo.

Nel caso il Congresso dovesse negare l’autorizzazione, Obama potrebbe decidere comunque di sferrare l’attacco. Il gesto avrebbe conseguenze enormi. La Costituzione Usa non consente al presidente di dichiarare guerra senza il voto del Congresso, anche se in tempi recenti i presidenti statunitensi hanno fatto ricorso ai loro “poteri esecutivi” per ordinare azioni militari – l’ultimo è stato proprio Obama, con l’intervento in Libia. E’ stato però lo stesso Obama ad affermare, nel 2007, che “il presidente degli Stati Uniti non ha il potere costituzionale di autorizzare attacchi militari unilaterali in una situazione che non abbia a che fare con una minaccia imminente alla nazione”. Con che legittimità politica, e con quali conseguenze per il suo futuro interno e internazionale, Obama potrebbe ora ordinare un attacco senza l’approvazione del Paese e contro l’orientamento di gran parte della comunità mondiale?

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