Due ore di biopic per il più celebre ciclista del nuovo secolo finito, a gennaio, in un salotto tv a confessare di essersi dopato. Il regista Alex Gibney non aggiunge molto alla cronaca di questi 20 anni, ma partito per seguire solo il rientro (mediocre) in gara dopo il cancro, continua a filmare la vita dello sportivo anche durante la squalifica e il ritiro di tutte le medaglie
Verità o bugia? L’interrogativo storico che soggiace alla rappresentazione cinematografica, dai Lumiere e Melies, passando per Orson Welles, arriva diretto al Lido di Venezia sotto forma di documentario con The Armstrong Lie. Due ore di sportivo e giudiziario biopic – Fuori concorso – per il più celebre ciclista del nuovo secolo, quel Lance Armstrong che tra fiale di Epo, pomate al cortisone e illegali trasfusioni di sangue, ora si ricorda di più per la confessione finale nel salottino di Oprah Winfrey (gennaio 2013) che per gli scatti in salita sulle Alpi.
Facile dirlo oggi, ma il 42enne corridore di Austin (Texas), 7 volte primo al Tour de France, si drogava per vincere dopo aver sconfitto (questo sì, realmente) un devastante cancro ai testicoli nel ’98. “Non sono mai stato positivo ai controlli”, questo il mantra ripetuto da lui, dal suo direttore sportivo Bruynel e del medico italiano Michele Ferrari che lo preparò per il rientro in gara nel post malattia. Difesa impossibile, capitolata nell’annus horribilis 2012 quando l’agenzia antidoping Usa e l’Uci poi, lo hanno squalificato a vita e tolto i suoi sette titoli in “giallo”.
Con The Armstrong Lie Alex Gibney, vincitore del premio Oscar nel 2008 per il documentario Taxi to the dark side, non aggiunge molto alla cronaca di questi vent’anni; ma proprio perché era partito con l’intenzione di filmare nel 2009 il mediocre rientro in scena del campione texano, dopo 4 anni di sosta che pareva un addio, registra poi la gragnuola di accuse di doping degli ex compagni di squadra di Armstrong (Frankie Andreu, Floyd Landis e Tyler Hamilton), infine attende paziente la “sua” confessione.
Armstrong la registra, senza i clamori della tv americana, nel maggio 2013. Rilassato, con maglia nera e qualche capello bianco, l’ex campione si apre a chi l’ha seguito e gli ha forse concesso una fiducia morale ed umana in quel 2009. Tanto che la grande menzogna Armstrong si sgretola in ogni punto, nulla si salva più, se non l’orgoglio di quella tappa sul Mont Ventoux dove l’atleta difende il terzo posto al Tour in modo pulito. “Lì non mi dopai”, spiega Lance a Gibney, quasi come fosse l’ultimo dono al testimone/amico di una caduta nella polvere che ha fatto scalpore.
L’ennesimo gesto performativo di Armstrong attore davanti alle videocamere del cinema, documentario, in mezzo alle testimonianze dirette dei grandi accusatori (il giornalista scozzese David Walsh, il ciclista Filippo Simeoni) e dei grandi complici (Bruynel e il medio Ferrari). Eccola la realtà che chiede un’indagine suppletiva alla macchina da presa di Gibney: in tutto quel mare di bugie, c’è ancora spazio per un qualche barlume di verità? Basta vedere The Armstrong Lie per capirlo. Forse solo da uno sguardo dell’accusato. In fondo se la storia di Armstrong non è stato uno script da thriller creato ad Hollywood, poco ci è mancato.