Se dovessi adoperarmi a trovare una collocazione di genere per Inseguendo Gauguin, libro d’esordio di Giuseppe Sforza (Laurana Editore, in libreria dal 6 settembre), azzarderei col dire che è un romanzo epico-cavalleresco. In realtà in questo romanzo non troverete cavalieri che corrono a difesa della società cristiana, ma una masnada di neghittosi antieroi che si muovono tra Trieste, la Puglia e l’Istria dei giorni nostri e che stanno a metà strada tra i personaggi di Pulp Fiction e i colossali indolenti del Grande Lebowski.
È un romanzo epico-cavalleresco perché ha una sua intonazione eroicomica, perché è costruito su una varietà di avventure che ne scandiscono la trama, perché il protagonista è come un moderno Don Chisciotte, un eroe errante che deve compiere un’impresa e conquistare l’amore di una bella fanciulla che tutti chiamano l’Angelo. L’impresa è rubare un quadro per conto di un malavitoso, solo che il quadro è a sua volta conteso da due clan, i Manager Cocainomani e il Clan del comandante Grivontec, e il protagonista (che nel libro è chiamato semplicemente Ragazzo) non è propriamente avvezzo a questo genere di fatiche. Così il Ragazzo, per cavarsi d’impaccio, è costretto a chiedere aiuto a una banda improvvisata di alienati capitanata da un certo Gana.
È una storia potentemente comica, zeppa di citazioni rock e scritta con una prosa al fulmicotone, che strizza l’occhio alla beona filosofia bukowskiana, a un esistenzialismo da taverna, ma durante la quale si incappa anche in commoventi tirate su Dio e sul senso ultimo della vita. Un’opera prima, insomma, dalla quale è davvero difficile distaccarsi non appena iniziata la lettura, e che rivela un autore dall’inventiva sorprendente, uno che una volta tanto mira a oltrepassare il modello pulp nazionale e che è capace di mettere in letteratura una visione personale e precisa – per dirla, appunto, con Bukowski – del “duro lavoro” dell’esistenza.