Maternità a confronto. Lei ha 40 anni, un lavoro a tempo pieno e un contratto a tempo indeterminato. Una posizione solida in una grande società, scatti di carriera, premi di produzione, buoni pasto, tredicesima e cesto a natale. Praticamente un animale in estinzione. L’altra è semplicemente disoccupata, o meglio, in cerca di occupazione.

La prima ha una figlia di tre anni. Nido pubblico e pubblica anche la scuola materna. Al momento di consegnare la domanda di iscrizione non ha presentato l’Isee (l’indicatore di reddito familiare) perché il suo reddito familiare è tra i più elevati e quindi è rientrata automaticamente nella fascia più alta. La scuola materna le viene a costare 280 euro al mese.

La seconda anche ha una figlia di tre anni, e vive nello stesso quartiere della prima. Nido privato e privata anche la scuola materna. Ha presentato la domanda a una scuola pubblica ogni singolo anno, corredata dal modello Isee, perché il loro reddito familiare è tra i più bassi. Ma con un solo genitore lavoratore è rimasta fuori dalle graduatorie. Per l’asilo pagava la bellezza di 450 euro al mese, per la materna (privata) oggi ne spende 350 mensili. Materiale didattico, carta igienica, merende e attività extra escluse.

A pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico, è evidente che qualcosa continua a non funzionare. Il criterio che ruota intorno alle graduatorie, per il quale una famiglia con entrambi i genitori occupati ha un punteggio maggiore per l’accesso alla scuola pubblica di una famiglia con un genitore disoccupato, fa acqua da tutte le parti. In un paese dove, secondo gli ultimi dati Istat, il tasso di disoccupazione ha segnato un record storico dal 1977 (3 milioni 140mila disoccupati a maggio 2013, il 18,1% in più dello scorso anno, pari a 40mila persone senza lavoro ogni mese) è evidente che un punteggio calcolato sulla base delle ore lavorative, più che sul reddito familiare, è anacronistico. La carenza di posti nelle scuole e la mancanza di lavoro, innescano un meccanismo per il quale i pochi banchi disponibili vengono assegnati in automatico a chi ha un impiego a tempo pieno, lasciando a casa la marea di disoccupati. Richiedere l’Isee per poi tagliare fuori una famiglia perché uno dei due genitori è disoccupato e quindi non accumula punteggio è una contraddizione in termini. L’ha capito la Germania che, con l’inizio del nuovo anno scolastico, ha messo in piedi una delle più importanti riforme sociali tedesche: un posto all’asilo per ogni bambino, con la possibilità per i genitori dei piccoli rimasti fuori dalle graduatorie, di fare causa al Comune che dovrà provvedere a trovare una sistemazione entro tre mesi. Sono queste le riforme a lungo termine che funzionano e non provvedimenti emergenziali a scadenza, come i miseri voucher Fornero che prevedono risorse limitate, per il triennio sperimentale 2013-2015, da destinare solo a poche famiglie.

Le riforme strutturali funzionano perché la mancanza di posti nei nidi e nelle scuole materne è strutturale e non può essere affrontato come l’emergenza del momento. E’ una carenza cronica, che con il passare degli anni invece di risolversi si acutizza: quest’anno a Roma, per le scuole d’infanzia comunali, sono state presentate mille domande in più rispetto al 2012 e a fronte di 21.757 richieste complessive, 11.381 bambini sono finiti in lista d’attesa. Mancano le scuole pubbliche (il problema è semplice quanto mai complicato da risolvere) e quando ci sono devono chiudere perché fatiscenti tanto da prendere addirittura fuoco. E se negli anni precedenti, un sindaco come Alemanno, pensò bene di lanciare una proposta per realizzare un impianto sciistico del valore di 1,6 milioni di euro direttamente sul mare della capitale (per altro in uno dei quartieri romani più popolosi e colpiti dalla mancanza di scuole), vuol dire che il cuore del problema non è tanto la mancanza di fondi quanto la mancanza di testa. Ed è questa mancanza di testa a rendere l’infanzia italiana tra le più povere d’Europa con il 22,6% dei minori a rischio povertà e a far sì che quasi due donne su tre siano disoccupate se ci sono due figli. E questo perché la mancanza di scuole ha dei costi economici per le famiglie e dei costi sociali che, nella maggior parte dei casi, ricadono sulle donne.

Logica vorrebbe che a pagare di più per la mancanza dei servizi non debbano essere certo le famiglie più povere. L’equità sociale, nella storie delle mamme a confronto, ci dice invece che l’accesso ai diritti dovrebbe essere universale e che il cuore del problema non è che una famiglia abbia in questo caso più diritto di un’altra ma la mancanza di volontà istituzionale nel superare il paradosso che danneggia i disoccupati ad accedere alla scuola pubblica.  

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