L'ultimo, in ordine di tempo, a evocare un conflitto internazionale è stato monsignor Toso, segretario del pontificio consiglio Giustizia e Pace. Ma quante sono realmente le possibilità di una escalation? Poche, almeno nel senso classico di un conflitto. Ma la situazione siriana è già mondiale per i rifugiati e per l'economia
Le parole di monsignor Mario Toso, segretario del pontificio consiglio Giustizia e Pace, hanno fatto rapidamente il giro del mondo: “Il conflitto in Siria contiene tutti gli ingredienti per esplodere in una guerra di dimensioni mondiali”, ha detto il prelato ai microfoni della Radio Vaticana. Una guerra mondiale, quindi, con l’inevitabile catalogo di immagini che questa locuzione immediatamente evoca. Ma è proprio così?
Il rischio di una escalation del conflitto fuori dai confini siriani è stato spesso evocato negli ultimi due anni, sia per avallare la richiesta di intervento militare internazionale sia per scongiurarla. Finora, l’unica escalation “esterna” è stata quella umanitaria con centinaia di migliaia di profughi sparpagliati tra Giordania, Turchia, Libano e un po’ meno in Iraq. Ci sono stati, è vero, sommovimenti e tensioni in Libano, non ultimi gli attentati di pochi giorni fa alla periferia meridionale di Beirut. Ma anche in un paese “nervoso” come quello dei cedri, i contendenti si sono fermati un passo prima della guerra. Almeno finora.
Su una cosa monsignor Toso ha ragione, gli ingredienti ci sono tutti. Tanto che qualcuno parla di “guerra mondiale locale” per descrivere la situazione siriana. Le grandi potenze – o quel che ne resta – anche se non direttamente coinvolte con proprie truppe, sono già impantanate nel conflitto. La Russia difende Bashar Assad e lo sostiene militarmente e politicamente; gli Stati Uniti sostengono politicamente una parte dei ribelli e forniscono anche “equipaggiamenti non letali” nonché informazioni di intelligence e comunicazione; la Cina, più defilata, sostiene Assad e difende il principio di non ingerenza negli affari interni. Ma che la guerra in Siria sia solo un “affare interno” non è più vero da tempo: gli interventi finanziari e logistici dei paesi del Golfo e Arabia saudita dal lato dei ribelli – specialmente di quelli islamisti – con l’aggiunta della Turchia per il Free Syria Army, di Iran ed Hezbollah dal lato del governo di Assad, senza dimenticare le incursioni israeliane oltre il “confine” del Golan, hanno già fatto assumere al conflitto siriano una dimensione quantomeno regionale. Se aggiungiamo i “volontari” e i mercenari che da diverse parti della galassia jihadista stanno affluendo in Siria per combattere la propria guerra contro Assad (e contro i ribelli di ispirazione più o meno laica e nazionalista), allora non è difficile vedere come la miscela esplosiva sia già mondiale.
Le linee di faglia lungo cui la guerra in Siria potrebbe espandersi come un contagio sono essenzialmente due, peraltro non nette. Una è quella dello scontro tra sciiti e sunniti, ovvero tra Iran e Arabia saudita, per l’egemonia politica nella regione. Una faglia che attraverso il Libano e l’Iraq, arriva fino al Bahrein e alle regione orientali dell’Arabia, dove ci sono importanti (e inquieti) gruppi sciiti. Se si arrivasse allo scontro aperto tra i due paesi, difficile non vedere le conseguenze, quelle sì mondiali, sulle rotte di rifornimento di greggio che passano per il Golfo e il “collo di bottiglia” dello stretto di Hormuz. Qualsiasi tentativo di bloccare lo stretto, da parte di chiunque, produrrebbe una reazione a catena.
La seconda faglia è quella di un possibile, ma al momento meno probabile, scontro “classico”, ovvero tra stati, animati ciascuno dal proprio interesse nazionale o presunto tale e non da bandiere “ideali” (umanitarismo, democrazia) o religiose (pansunnismo o pansciismo). In questo caso, altri paesi potrebbero essere risucchiati nel gorgo, a partire da Russia e Israele, per non citare i paesi europei finora più decisi (a parole) a intervenire, con la Francia di Hollande in testa.
Le due linee non sono nette, anzi si intrecciano e confondono e si sovrappongo con altre rivalità incrociate e storicamente consolidate, per esempio quella tra turchi, arabi e persiani. Il tutto, complicato dal ruolo delle minoranze di vario tipo: gli alawiti innanzi tutto, ma anche le chiese cristiane d’oriente, i kurdi o le minoranze non persiane dell’Iran. Una cristalleria politico-etnico-religiosa, insomma, in cui i ventilati raid occidentali, per quanto “limitati e precisi” (Rasmussen) potrebbero essere il proverbiale elefante. Troppo allarme? L’anno prossimo l’Europa ricorderà la sua prima “guerra mondiale locale”, iniziata con due colpi di pistola sparati a Sarajevo.
di Joseph Zarlingo