L’addio al Marocco e l’ingresso in Spagna si rivelano più sofferti del previsto. Cominciamo a sospettarlo lungo la trafficatissima strada che da Chefchauen scende a Tetouan, e ne abbiamo la certezza quando alle tre del pomeriggio arriviamo in vista della frontiera. Quanto l’autostrada era deserta, tanto è intasato quell’ultimo tratto di statale a fondo cieco, che conduce alla penisola di Ceuta, avamposto spagnolo in terra d’Africa.
Chilometri e chilometri di auto in colonna, stracolme all’inverosimile di ogni genere di masserizie; abbiamo preso in pieno il grande rientro dei marocchini in Francia, Inghilterra, Germania, Italia. Poker di bollini rossi in un colpo solo. Ma che bollini, questo è un superbollo, qui, all’unica frontiera di terra tra primo e terzo mondo l’esodo è una cosa seria. Gli spagnoli non si fanno impietosire dalle donne e dai bambini, incredibilmente angelici, tenuti fermi sotto il sole e controllano con attenzione ogni veicolo. Passano i secondi, i minuti, le ore. Cose da primo mondo. Quando finalmente arriva il nostro turno, la Rab passa il controllo al volo, gli europei non fanno notizia, al massimo sono finti poveri ma qui ci sono i poveri veri da torchiare. Sono ormai le nove di sera, nessuna possibilità di imbarcarci per Algesiras fino all’indomani. Bene, ci godremo Ceuta.
A Ceuta, a parte passeggiare avanti e indietro per una simil-rambla semideserta, ci sono due cose da fare; mettersi in coda per uscire dal Marocco (ma questo l’avevamo già fatto ieri) e mettersi in coda per uscire dall’Africa. Pensavamo di esserci lasciati alle spalle il peggio del rientro, ma già dal primo mattino i rumori dei clacson che provengono dal porto ci fanno temere il contrario. Forti della prenotazione fatta la notte su internet per il Balearia dell 15.30 ci affanniamo a presentarci all’imbarco con tre ore di anticipo e dopo avere sbrigato con efficienza e sorrisi sospetti le pratiche ci ritroviamo ingabbiati in un enorme recinto stipato di auto in attesa. Riconosciamo alcune famiglie viste il giorno precedente alla frontiera che probabilmente hanno trascorso la notte bivaccando nel gabbione (foto 4).
Non solo l’imbarco, ma una seconda col contagocce ci attendono. Pietro, terzomondista convinto, si scaglia contro gli spagnoli che non hanno scrupoli a infierire sui marocchini. Nanni vorrebbe difenderli dall’accusa di razzismo, ma non è facile. Di fatto siamo in una specie di campo di concentramento su quattro ruote, quaranta gradi all’ombra delle lamiere, nessun genere di conforto se si esclude un baracchino miracolato, sotto assedio perenne. Schierati su 20 file parallele, procediamo agli ordini dei fischietti degli agenti, senza regole e senza informazioni. E guai a distrarsi, perché si viene immediatamente superati dalle file vicine: la classica lotta a coltello tra poveracci.
Tutti gli orari sono saltati, le compagnie hanno evidentemente accettato un numero di prenotazioni infinitamente superiore alle capienze dei traghetti, gli addetti delle compagnie di navigazione si sono dileguati e la polizia ha il suo daffare per sedare le rivolte, ma non rinuncia a ispezioni ancora più minuziose di quelle del giorno prima.
Così, da un rimorchio accanto a noi, viene stanato un clandestino: è un giovane africano che si è nascosto per ore, sotto una cerata e sotto il solleone, sperando nella disattenzione dei doganieri. Viene tirato fuori a forza e “accompagnato” fuori, riconsegnato alla terra di nessuno. Eravamo stati impacchettati poco dopo le 12; quando finalmente la Rab viene imbarcata insieme ai suoi disidratati passeggeri sono quasi le 20; un’ora dopo ci presenteremo davanti alla rocca di Gibilterra (foto 5). Non una scusa da parte della compagnia Balearia per le vergognose condizioni in cui sono stati messi i clienti in uno dei giorni più critici dell’anno; però, una volta saliti a bordo, i pessimi panini al formaggio in vendita per 4,50 euro cadauno andavano a ruba. Una nuova tecnica di marketing?
(7-continua)