Vi è mai capitato di imbattervi in una di quelle trasmissioni, tipo “La Grande Storia” su Rai 3, dove quasi ogni tre per due raccontano la vita di Mussolini o di Hitler? A me ogni tanto capita e la cosa ha cominciato a rompermi un po’ i coglioni. Con la pretesa di raccontare la storia vestendola di presunta neutralità, in modo da far sembrare tutto “più obiettivo”, in realtà spesso si ottiene il risultato di far apparire questi due soggetti come due grandi “statisti” anziché due “Grandi criminali della storia”, titolo che mi parrebbe molto più appropriato per la trasmissione…
Di questo passo mi aspetto di vedere fra trent’anni, se mai ci sarò ancora, un bel documentario sul Berlusca che ne racconti le encomiabili gesta e lo dipinga come il più grande statista degli ultimi centocinquant’anni.
Per non cadere nello sconforto, io e il mio amico Mauro Carpi abbiamo deciso di raccontare, attraverso questo blog, una serie di storie di paese che altrimenti rischierebbero di finire dimenticate nonostante la loro forza e bellezza. Sono storie di compaesani, per lo più antifascisti, raccolte attraverso testimonianze, atti documentali, ricerche negli archivi comunali di Gattatico (Reggio Emilia), voci di paese. A questa serie di racconti metteremo il sottotitolo “La storia siamo noi” e faremo affiorare la nostra convinzione secondo cui il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, non sono attributi di cui la Storia possa fare a meno. Noi non saremo neutrali.
Il primo racconto, che potrebbe benissimo essere inserito nella rassegna, è già stato pubblicato in questo blog con il titolo “Addio Gina Tonelli. Per una donna vera”. È anche grazie ai vostri lusinghieri commenti che abbiamo trovato la voglia di proseguire con le pubblicazioni.
Ed ecco, allora, “Al sop sartór”. Il soprannome, spesso, ha vita più lunga del nome e cognome. Infatti, tutti in paese lo ricordano come “al sop sartór”, mentre le esatte generalità – Dalmino Oleari, classe 1887 – le abbiamo dovute trovare all’anagrafe comunale. Era chiamato così perché era zoppo e perché un tempo faceva il sarto. Negli anni di guerra e di fascismo, però, Dalmino era stato costretto ad abbandonare questo mestiere, probabilmente perché i clienti più abbienti non appartenevano al suo ceto sociale e, soprattutto, perché non aveva mai rinunciato a dichiararsi orgogliosamente socialista, convinto, di “scuola prampoliniana” (da Camillo Prampolini). Immagino che commissionare qualcosa a lui significasse, per molti, dover uscire “allo scoperto”, impresa non facile a quei tempi. Per questo si era messo a fare “al giasèr”: con una bicicletta e un carretto andava a Sant’Ilario d’Enza, prendeva il ghiaccio e lo portava ai caseifici e ai negozi che lo richiedevano.
A me piace pensare che fu proprio per questo suo orgoglio “socialista” che decise di far sposare sua figlia Maria in occasione della festa del primo maggio (va precisato che Mussolini, arrivato al potere nel 1922, tra i suoi primi atti aveva proibito la celebrazione del 1° maggio. Durante il fascismo la festa del lavoro fu spostata al 21 aprile, giorno del cosiddetto Natale di Roma. Così snaturata, essa non significava più niente per i lavoratori, mentre il 1° maggio assumeva una connotazione quanto mai “sovversiva”, divenendo occasione per esprimere in forme diverse – dal garofano rosso all’occhiello alle scritte sui muri, dalla diffusione di volantini alle bevute in osteria – l’opposizione al regime – cit. La Repubblica – Storia d’Italia dal ’45 ad oggi).
Al sop sartór se ne infischiò delle leggi mussoliniane e, consapevole dei rischi che stava correndo, accompagnò sua figlia all’altare il giorno della festa dei lavoratori. Festeggiò, bevve, abbracciò tutti e – si narra – fece addirittura il gesto dell’ombrello a una camionetta di fascisti che stava passando da quelle parti.
Naturalmente, lui era sicuro che le camicie nere non gliel’avrebbero fatta passare liscia. E infatti fu così. Sapendo che le punizioni più in voga a quei tempi erano le bastonate e l’olio di ricino, Dalmino Oleari cercò di prepararsi come meglio poteva.
Voi conoscete l’olio di ricino? Io, purtroppo, sì. Non so ancora per quale disgraziato motivo, ma a volte, quand’ero piccolo, capitava che alla sera mia mamma mi dicesse che dovevo bere un cucchiaino di olio di ricino. Era un’autentica tortura e ancor oggi ricordo perfettamente il gusto schifoso, imbevibile, di quel liquido oleoso, dalle notevoli proprietà lassative.
Al sop sartór conosceva bene le proprietà di quell’olio e, appena prima di essere prelevato dalla squadraccia fascista del paese per essere portato nella casa del fascio, si strinse forte i pantaloni in basso, con un elastico, affinché nulla potesse fuoriuscire. Come aveva previsto, gli diedero un bicchierone di olio di ricino e lui lo bevve con estrema naturalezza, avendo addirittura la sfrontatezza di raccogliere con l’indice quel che era rimasto nel bicchiere, portarsi il dito alla bocca e succhiarselo senza lasciare neppure una goccia.
Ma il brutto doveva ancora venire. Dalmino s’incamminò a piedi verso casa, testa alta, e gli elastici impedirono ai compaesani di vedere quel che scendeva nei pantaloni. Raggiunse casa sopportando gli “stretti” di pancia e ostentando la massima naturalezza possibile; poi si chiuse dentro, aspettando la lunga notte. La famiglia Oleari abitava in una casetta in quella che adesso si chiama via Athos Tedeschi (in memoria di un partigiano, vicino di casa e amico, ucciso di botte dai fascisti nel ’44… ma questa è un’altra storia, come direbbe Lucarelli), di fianco a Sever, al pòver barbér.
Come tante case dell’epoca, quella di Dalmino non aveva il bagno e quindi l’unico cesso disponibile era situato nel cortile interno a un borgo, detto “Al Vaticàn”, al quale la famiglia Oleari accedeva passando dal retro. Ancor oggi “Al Vaticàn” è il nome di un gruppo di case che si affacciano tutte su questo grande cortile quadrato, dove allora, tra gli altri, abitava malauguratamente uno dei fascisti che aveva accompagnato Dalmino Oleari alla punizione.
Per al sop sartór fu una notte terribile. Tra dolori e crampi riempì di merda le pentole di casa, ma non uscì mai in cortile, dove sapeva che, ad aspettarlo, ci sarebbero state le risate e lo scherno di alcuni compaesani, col fascista in prima fila.
Il racconto, sulla bocca di chi ricorda, finisce qui. Qualcuno aggiunge: “L’è morta anche Maria, la fiòla, pòvreina..” Mio padre interviene: “L’è mort anca so fiòl, pòvrein…l’è dovù andèr a lavorèr in Belgio, dop la guerà, in miniera, e l’è mort supplì in miniera, pòvrein…l’era sòven..“.
Potrebbe stare tutto in poco più di venti righe. Eppure son passati più di settant’anni ma quelle gesta sono rimaste impresse nella memoria di chi è sopravvissuto a quegli anni terribili, e io adesso so che se un domani mia figlia dovesse chiedermi: “Papà, cos’è l’orgoglio? Cosa vuol dire dignità, saper tenere la schiena dritta, aver coraggio delle proprie idee, difendere la libertà di poter scegliere? non avrei dubbi, racconterei del dito che raccoglie l’ultima goccia, dell’elastico nei pantaloni, della notte passata da Dalmino Oleari.
Gli racconterei la Storia dal sop sartòr.
Grazie Dalmino.