Le donne sono lobbiste migliori degli uomini? Pare di sì, almeno leggendo i dati di un recente studio di LegiStorm, pubblicati su The Atlantic: “In media un contratto stipulato tra un cliente e una lobbista donna vale di più di uno firmato da un lobbista uomo. Inoltre, un team di due donne ottiene mediamente contratti più profittevoli di quelli stipulati da due uomini”.

LegiStorm è un centro studi apartitico che compie ricerche sul congresso americano. Grazie ad un algoritmo creato ad hoc e ai dati del registro delle lobby che operano attorno a Capitol Hill, ha analizzato il business di quasi tre miliardi di dollari che alimenta questo settore, confrontando i contratti stipulati negli anni 2002, 2007 e 2012. Concludendo che “le donne che lavorano nelle lobby ottengono prestazioni migliori dei colleghi maschi con contratti più redditizi e clienti più danarosi”. Si tratta di un risultato sorprendente, soprattutto perché l’ambiente dei gruppi di pressione a Washington è ancora fortemente maschile: nel 2012 le donne impiegate nel settore erano solo il 35%del totale.

E in Europa? “C’è abbastanza parità di genere per quel che riguarda l’accesso al settore. Anche perché ci sono diverse norme a livello europeo che tutelano la presenza femminile nelle aziende e nelle lobby”, spiega Arianna Catalano, 27 anni, da Bruxelles, dove, dopo essersi specializzata al College of Europe di Bruges, lavora in una lobby che ha per clienti attori finanziari operanti nel mercato delle commodity. Ma il gender gap è più evidente nei gradini superiori della scala gerarchica. “Anche se formalmente ci sono donne a tutti i livelli – continua Arianna – spesso si occupano di questioni più che altro organizzative, quasi amministrative. Gli incarichi più creativi e di responsabilità, come portare i nuovi clienti o scrivere gli emendamenti da sottoporre ai parlamentari, sono spesso svolti esclusivamente da uomini”.

Il sistema europeo è un po’ diverso da quello americano. “Ci sono due tipi di lobby – spiega Catalano – le trade association, le associazioni che rappresentano gli interessi di un determinato settore industriale o di una parte sociale (come la European women lobby), e le consultancy: agenzie di consulenza e compagnie private che curano le pubbliche relazioni e i pubblic affairs, facendo una vera e propria azione di lobbing sui soggetti politici ed economici che operano qui a Bruxelles, per influenzare le loro scelte e tutelare gli interessi dei propri clienti. Queste ultime sono forse più simili alle lobby americane”.

Arianna lavora come account executive proprio in una consultancy. Racconta: “Bisogna sapersi adattare al contesto, essere spigliate sia sul piano linguistico che relazionale, essere sintetiche, aggiornate e bisogna imparare a trovare intelligence”, ovvero le informazioni confidenziali che hanno un valore immenso per le lobby. “Se da un lato le consultancy sanno premiare l’intraprendenza personale, dall’altro la cultura manageriale tende a seguire delle dinamiche alquanto machiste”. Ad Arianna è capitato più volte di essere l’unica donna a una riunione. “Per non parlare del fatto che le molte ore di lavoro e la disponibilità richiesta rendono difficile coniugare l’attività professionale e la famiglia.”

La meritocrazia in questo lavoro è misurata spesso in base alla quantità e non alla qualità. Secondo Arianna c’è ancora molta strada da fare: “Nonostante le donne abbiano le stesse potenzialità degli uomini e una miglior preparazione, è ancora difficile fare carriera in questo settore. Spesso le donne organizzano gli incontri con i clienti, ma a firmare i contratti sono più di frequente gli uomini”.

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