Cultura

Festival Venezia 2013, Pine Ridge docufilm sui nativi per sfatare cinema alla Wayne

“Ci sono tanti stereotipi - spiega la regista svedese Eborn - per questo mi sono concentrata sui giovani che vivono in questa riserva, sui loro pensieri, su ciò che hanno dentro”. "Gli statunitensi pensano davvero che noi nativi abbiamo un’unica lingua, cultura e costume, ma siamo 366 tribù diverse tra loro" racconta John Little Finger

di Davide Turrini

L’uomo bianco non va più col suo dio, ma con i pellerossa. Al Festival di Venezia 2013 arriva, Fuori Concorso, il documentario Pine Ridge, girato interamente tra i componenti della tribù Oglala Lakota nella riserva Sioux del South Dakota, dove ancora vivono migliaia di nativi americani.

E’ in questi spazi infiniti, tra le pianure e i prodromi delle montagne dell’ovest, che la giovanissima e “bianchissima” regista svedese Anna Eborn ha realizzato il suo primo lungometraggio documentario, con una produzione danese e statunitense.

E non c’è nulla di bucolico e romantico da osservare, semmai la macchina da presa della Eborn si posiziona in un luogo altamente simbolico per il popolo Sioux: teatro dello sterminio di Wounded Knee nel 1890 dove i soldati “blu” trucidarono più di 300 pellerossa Miniconjou compresi donne e bambini; poi nel 1973 scenario infuocato dei 71 giorni di rivolta popolare condotta dal neonato American Indian Movement contro il governo federale e l’Fbi.

Scorrono i visi e sommari cenni biografici di alcuni giovani abitanti del luogo: c’è la ragazza che ha subito abusi familiari, il guardiano del memoriale che ricorda i fatti del 1890 e 1973, i ragazzi che imparano a cavalcare, un gruppo che si ritrova a fare un bagno in una pozza d’acqua salmastra, il giovane che vuole diventare guardia forestale per far rispettare la legge, un insegnante musicista che mantiene alta la memoria storica continuamente calpestata degli indiani d’America.

“Ci sono tanti stereotipi sui pellerossa”, ha spiegato la Eborn, “per questo mi sono concentrata sui giovani che vivono in questa riserva, sui loro pensieri, su ciò che hanno dentro, volevo capire che sono significa vivere in quel luogo per loro oggi”. Due anni, tre viaggi in Usa e sei settimane di full immersion nella riserva per portare a termine il film: “Il mio punto di partenza è sempre il luogo che descrivo: chi ci vive, qual è l’ambiente, la natura, poi la sfida è come creare in quest’ambiente una storia cinematografica. Traggo ispirazione dal luogo e dalla mia esperienza, e a Pine Ridge c’è vero caos, è un luogo senza strutture, c’è un alto tasso di suicidi, le persone cambiano spesso casa, sembra ci sia sempre qualcosa in corso. Difficile seguire un personaggio tanto cheabbiamo interrotto le riprese molte volte”.

Curioso che a fianco di una condizione sociale non proprio sopra la soglia di povertà, coesistano ancora bianchi che, come vediamo in Pine Ridge, tra armi, munizioni e rodei, continuano a vivere da padroni cowboy su terre abitati dai Sioux: “C’è tanta confusione attorno a ciò che accadde nel 1973 a Woudned Knee, racconta John Little Finger, il giovane insegnante/musicista che accompagna la Eborn al Lido, “l’idea è che tra noi giovani pellirossa persista l’orgoglio di quelle ribellioni, come di essere figli e nipoti di chi le compì. Oggi però abbiamo meno forza per imporci rispetto ad allora”.

Un documentario pensato per la distribuzione in sala proprio per far comprendere la complessità della storia e della cultura dei nativi americani agli abitanti “abusivi” che si sono installati sulle terre d’America da cinque secoli: “Gli statunitensi pensano davvero che noi nativi abbiamo un’unica lingua, cultura e costume, ma siamo 366 tribù diverse tra loro. Se un film così onesto e veritiero nei nostri confronti aiuta i giovani a capire la nostra storia ben venga. Ci ha già pensato il cinema con John Wayne a distorcere la nostra realtà, confondendo tribù e lingue, andando a prendere comparse in New Mexico, o film più impegnati come Un uomo chiamato cavallo”.

“Anch’io uso la mitologia cinematografica western ma solo come spunto per la riproduzione del paesaggio”, conclude la Eborn, “semmai i miei riferimenti sono Chantal Akerman, Carlos Reygadas e il documentario Streetwise di Martin Bell dove si racconta la vita di nove disperati teenager che vivono in mezzo alla strada”.

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