Guerra e pace. C’è altro? No, ti dicono alcuni, anche molto potenti, che intendono imporre un principio o una osservanza o un dovere. L’antica persuasione dei secoli è che senza il sangue non ci sono vittorie. Se il reprobo non si consegna, non resta che infliggere la pena. In questa visione, il Papa resta il Papa – ti dicono – buono ma non utile per risolvere grandi misfatti che meritano grandi punizioni, anche per ragioni esemplari. E i non combattenti appaiono rinunciatari, indifferenti o paurosi.
Questa è l’immagine di un mondo in cui la terza via (oltre l’interventismo e la esecrata decisione politica di non combattere) è il pacifismo. Il pacifismo è l’opposto simmetrico dell’interventismo: di fronte alla persuasione che solo le armi alla fine decidono, il pacifismo è la certezza di dover star lontani dalle armi sempre e comunque, perché sono disumane e immorali. Così è stata tutta la storia umana.
Eppure, questa contrapposizione non descrive i giorni che stiamo vivendo. Per esempio, il Papa non esorta (non solo) alla preghiera e all’amore. Pensa, e lo dice, a un attivismo realistico e possibile. Sembra ispirarsi non tanto al concetto che la guerra è male quanto all’altro, molto più moderno e ancora poco diffuso e non capito: che la guerra è inutile per eccesso di forza. Ecco il punto, che non esisteva nei secoli che hanno formato la nostra cultura: la forza della guerra. Un clamoroso e persino inatteso salto tecnologico, ha portato la potenza degli strumenti di guerra a una misura molto superiore a ogni possibilità di controllo.
Questo ha ridotto drasticamente le opzioni dei governi che devono rispondere ai propri popoli. Infatti, anche se usata solo in parte, solo per poche volte, la potenza si rivela subito sproporzionata, causa danni collaterali impressionanti, qualcosa che appare molto simile al crimine che si voleva punire. E, allo stesso tempo, rende impossibili le conseguenze politiche desiderate.
In altre parole, il più forte può distruggere molto ma non vince mai, come dimostrano, di seguito, Vietnam, Iraq e Afghanistan. Oppure, come ammonisce il Papa, si può precipitare in un caos distruttivo non più controllabile. Resta la domanda a cui finora anche i “coraggiosi” che si sono disposti intorno al ring e tifano per la guerra, non hanno voluto rispondere.
Perché non usare la politica e la diplomazia (non nel senso di buone maniere ma nel senso di strategia vasta e coordinata fra tanti) per mettere alle corde il portatore di morte e di pericolo, sotto la bandiera del “no all’indifferenza, no al massacro”? Si direbbe che si stia verificando una confusione fra l’insidia del terrorismo, difficile da afferrare perché non ha Stato e che, per questo, ha la capacità, a momenti, di disorientare sul come combatterlo. E uno Stato bene identificato come la Siria, di cui si sa tutto (compresa l’inclinazione criminale dei governanti verso la sua stessa popolazione) e che, a differenza della ex Jugoslavia, continua ad avere un forte punto di controllo statuale.
Nonostante la pretesa di sicurezza e di sfida, uno Stato risente per forza di una coalizzata pressione di altri Stati (tutti, se possibile). È bene ricordare che Assad ha varcato la “linea rossa” molto prima delle non ancora accertate, ma certo letali, armi chimiche. La striscia rossa è stata passata con il sequestro e la tortura sistematica dei bambini, catturati dovunque, dentro le dimostrazioni e nelle case. È stato il modo barbaro e odioso di aprire la lotta contro i ribelli. La rispettabilità internazionale di Assad doveva finire a quel punto, con il ritiro immediato di tutti gli ambasciatori e l’inizio di un isolamento che equivale a un mandato di cattura. Fino alle dimissioni o all’esilio, senza accostarsi all’indimenticabile orrore delle esecuzioni di Saddam e Gheddafi.
Quando, a uno a uno, importanti personaggi del regime siriano hanno cominciato a disertare, hanno tentato di dare un segnale che nessuno ha raccolto. Adesso il Papa, sempre rispettoso dei non credenti, non si ferma al pur appassionato invito alla preghiera. Sta chiedendo il digiuno, grande segno laico di nonviolenza. Intende aprire una riflessione che potrebbe screditare in modo limpido e logico la vecchia, spaventosa cultura della guerra. In un mondo globalizzato non serve imporre sofferenza per punire sofferenza. A meno di scegliere di uccidere e di morire, tutti dipendiamo da tutti. Dobbiamo passare parola. Dobbiamo a tutti i costi far capire che non fare la guerra è diventata, prima ancora che una scelta morale, una necessità pratica e realistica per salvare tutti. Non è accettazione del male, è il solo modo per vincerlo.