Le nazioni per proliferare hanno continuamente bisogno di nemici. Ogni nemico deve essere identificato attraverso un simbolo, e poco importa se il simbolo rappresenta qualcosa di concreto o se resta una pura effigie, un’incarnazione. Non si fa una guerra senza avere un nemico. Dire che i nemici sono il primo requisito che serve per attivare e giustificare una macchina bellica può suonare come una banalità. Non lo è se uno Stato ha le necessità di muovere una guerra ma non ha a disposizione un nemico. Il nemico deve rappresentare una minaccia. Più è terribile la minaccia, maggiori saranno le possibilità che la guerra sarà percepita come giusta. Minore è la portata della minaccia e minore sarà l’interesse dell’opinione pubblica a concepire una guerra. La realtà della maggior parte delle guerre è che l’individuazione di un nemico, e quindi della minaccia, non precede la decisione di ricorrere alla guerra, ma la segue.
Le ragioni sostanziali per cui – soprattutto in occidente – si fa una guerra non sono mai legate a un rischio diretto di aggressione. Le ragioni sono di natura economica. Da oltre un secolo è l’economia che controlla la politica, e non più la politica che controlla l’economia. L’economia, rispetto alla politica, ha un vantaggio di posizione: non ha bisogno di convincere un elettorato, e perciò ha campo libero rispetto a cose come l’etica, la conciliazione, il benessere materiale dei popoli. L’economia indica alla politica che a un certo punto della storia occorre muovere una guerra. La politica deve agire su tre livelli: scovare la guerra da combattere, indicarne le motivazioni (inventarle, se necessario), individuare i simboli capaci di colpire l’immaginario pubblico. Il mandato per una guerra si costruisce scalando questi tre livelli. La politica si rende serva dell’economia, sale sul palcoscenico del mondo e mette in scena una farsa generale. Le reazioni dell’opinione pubblica a questa farsa diventeranno a loro volta farsa. Perché le reazioni dell’opinione pubblica tenderanno ad accogliere o rigettare le tesi che la politica ha indicato (inventato, se necessario), il dibattito si fonderà cioè su un’abile mistificazione e non sulle ragioni reali che muovono alla guerra, la disputa tenderà a ignorare il mandante economico, l’opinione pubblica si troverà a replicare a una realtà distorta, contribuendo suo malgrado a distorcerla ancora di più, e quindi a nutrirla, a ingrassarla, in una parola a legittimarla.
È quello che accade puntualmente oggi con la Siria. Che è accaduto ieri con la Libia, e l’altro ieri con l’Afghanistan e l’Iraq. C’è una crisi economica, c’è un uomo politico dal fascino messianico il cui mandato è risolvere questa crisi. L’uomo dal fascino messianico, una volta giunto al giro di boa del suo mandato, si rende conto di non possedere le forze né la capacità necessaria per compiere la sua missione. Il potere economico, che non sottostà al giudizio popolare ma che tutela il proprio interesse sopra a ogni cosa, gli indica allora il rimedio spiccio: una guerra, che – da che mondo è mondo – agisce come un vaccino, inocula il germe per stimolare il corpo ricevente alla produzione di anticorpi capaci di neutralizzare la malattia di cui quello stesso germe è portatore. Ma l’uomo dal fascino messianico ha tre problemi da risolvere, i quali, a loro volta, corrispondono ai tre livelli di cui si diceva sopra: scovare la guerra, indicarne le motivazioni (inventarle, se necessario), individuare i simboli capaci di colpire l’immaginario pubblico. Ergo: Siria – strage di civili / minaccia terroristica mondiale – armi chimiche. Questa la farsa.
La reazione pubblica alla farsa è diretta a rendere ancora più concreta la farsa stessa. La reazione è rivolta cioè a confermare o confutare le tesi su cui si fonda la farsa, e non a demolirla, per esempio, indicando la grande questione che ne è all’origine, e cioè che un’escalation bellica in Siria rappresenterebbe la scorciatoia per risolvere la grande recessione e riattivare l’economia. Una crisi economica che, è bene ricordarlo, è una crisi di sovrapproduzione, che deriva cioè da un blocco intervenuto nei meccanismi di accumulazione. Un blocco che, come già accaduto nel 1914, nel ’29 e all’inizio degli anni Settanta, la politica, asservita all’economia, riesce a sbrogliare solo attraverso il ricorso alle armi.
Se il dibattito pubblico non si reggesse sull’asse “farsa-controfarsa”, si porrebbe in primo piano, per esempio, la questione del simbolo, che nel nostro caso è l’uso, da parte di Bashar Al-Assad, di armi chimiche sui civili. Porre in primo piano la questione del simbolo significa interrogarsi sui produttori di armi chimiche, significa chiedersi, per esempio, perché, se il modo per legittimare una guerra alla Siria è accertarsi che ci sia stato il superamento della linea rossa data dall’uso di armi chimiche, non si debba allora – ragionando per paradossi – intervenire all’origine, muovendo guerra, per dire, ai paesi che producono ed esportano armi chimiche.
Confutare il simbolo significa svelare i lordi meccanismi che muovono il mondo, rigettare in toto la farsa dei tre livelli di persuasione, scartare le menzogne della politica asservita ai pattumi dell’economia, rifiutare la piattaforma del ragionamento su cui si fonda il dibattito internazionale sulla guerra in Siria e su tutte le guerre in generale, domandarsi perché non si scovano mai simboli buoni a legittimare guerre contro i produttori di disuguaglianze sociali (il divario tra i ricchi e i poveri è la prima causa di malessere dell’individuo; è quindi – in teoria – il primo problema delle nazioni), mentre se ne scovano sempre di buone per motivare conflitti utili ad aumentare la forbice della disuguaglianza, a mantenere al caldo le terga di chi detiene il potere economico.
All’uomo dal fascino messianico oggi regalerei i versi che un grande poeta siriano, Adonis, ha scritto in Siggil (Interlinea, traduzione di Fawzi Al Delmi): “Ma com’è facile mettere il cappello di un profeta sulla testa di un impostore, com’è facile mettere il cappello di un impostore sulla testa della storia”.