Il clima nelle strade di Santiago, le operazioni di polizia, il mio arresto, il colpo di Stato in arrivo, il rapporto tra il presidente e il generale Augusto Pinochet e quel voto popolare pensato e mai convocato sulla legittimità del governo. Il racconto di un testimone oculare
Il Cile dell’agosto-settembre ’73 era devastato dallo scontro sociale e politico, dall’offensiva della destra e della dc contro il governo Allende. Il dollaro era alle stelle al mercato nero, c’erano attentati, code ai negozi e tutti i rifornimenti erano resi problematici dagli scioperi dei camionisti e dei commercianti. Su un negozio chiuso avevo persino letto la scritta: “Chiuso in attesa di golpe”. Ma io potevo ancora vedere l’altra faccia della medaglia, quella della speranza e della partecipazione. Al di là degli studenti brasiliani, boliviani e argentini che puntavano su Santiago per sfuggire al peso delle dittature di casa loro. La capitale grigiastra e bruttina sotto le Ande stava diventando la Mecca dell’intellighenzia democratica dell’America Latina.
Santiago era un pullulare di scritte e di murales, di giornali, di volantini, assemblee, manifestazioni, con il boom della musica andina: tutto un mondo variegato che si riconosceva nel poder popular. Mi sembrava un concentrato del nostro ’68-’69. Ma c’erano anche le radio e le televisioni di tutti i colori politici, cosa allora sconosciuta in Italia e in Europa. E grazie all’overdose di politica, il Cile poteva sembrare davvero un paese molto vicino all’Italia, simile persino in certe raffinatezze della politica ufficiale, la sinistra democristiana, la sinistra socialista, i tatticismi. E per un militante italiano nel ’73 trovarsi fra strategia della tensione e allarmi per possibili colpi di stato non era cosa strana. Rileggo qualcosa dal Diario scritto allora per Lotta Continua.
– Sono passate da poco le 10, molta gente in Vickuna Mackenna, il grande corso che unisce il centro con i quartieri popolari e industriali della zona sud. Una fiumana silenziosa che sta evacuando il centro, a piedi, sui pullman stracarichi. Qualcuno chiacchiera e sorride; lo stesso sorriso del ragazzo dell’appartamento di fronte che mi ha gridato, sfottendomi, ‘poder popular’… (merda, sanno che siamo di sinistra!). I momios cominciano a esultare. Vado verso le fabbriche più vicine. I carabinieri alle finestre della caserma, ognuno con il fucile mitragliatore in mano, a difendersi da un nemico che non sanno ancora chi è. Sapranno con chi stanno? Gli spari dal centro (uno o due chilometri di distanza). La gente silenziosa. I compagni hanno già paura di parlare? Per un attimo fantastico: un’azione avventata di alcuni settori delle forze armate, una grossa reazione popolare, la vittoria… e il socialismo, o quasi, e io qui, a scrivere in Italia… Ma non si vede niente di tutto questo. Operai al cancello di una fabbrichetta mi fanno parlare con il dirigente. “Stiamo qui, tranquilli, come ha detto la cut”. “Ma se si aspetta siamo fottuti..”. “Ma che vuoi fare? Credo che siamo gia fottuti” – .
Esito a raccontare la storia del mio arresto e della mia detenzione nello Stadio di Santiago, dal 15 settembre al 6 ottobre, perché sotto sotto mi sembra di essere stato in parte fortunato e in parte privilegiato, come straniero. Ero andato a trovare un socialista capitando proprio mentre lo arrestavano. I militari mi hanno trattenuto e poi sbattuto in un pulman senza sedili, dove raccoglievano i sospetti e li portavano allo stadio. Ma poi delle circostanze del mio arresto avevano perso traccia e quando mi hanno interrogato hanno chiesto a me dove ero stato arrestato. Anche se non sono stato torturato, tutta l’esperienza vissuta allo stadio mi ha confermato la pesante violenza del golpe. Quarant’anni dopo scopro ancora cose nuove in quella vicenda e non cesso di interrogarmi. In particolare sul risvolto quasi completamente inedito in Italia di Allende, che aveva deciso di annunciare l’11 settembre un referendum sulla legittimità dei suoi poteri e del suo governo. Lo racconto con le parole dello storico ed economista Andrea Rivas, allora dirigente di un partito della coalizione di Allende.
– La mattina del 11 settembre dormivo a casa, il che in quel periodo non era frequente. Dormivo a casa perché, la sera prima, in quanto segretario regionale a Santiago di un partito dell’UP avevo assistito ad una riunione con il Presidente Allende, il quale ci aveva comunicato che i preparativi per il golpe erano molto avanzati e che la destra golpista controllava ormai l’aviazione e la marina. Tuttavia, ci disse, “finché conteremo sull’esercito ed i carabinieri, i cui comandanti sono leali verso il governo, non si realizzerà. Ciò malgrado, poiché i rischi per la democrazia cilena sono troppo alti, intendo fare domani un discorso per comunicare al Paese la mia decisione di chiamare ad un plebiscito sulla permanenza del governo. Tutto indica che lo perderemo, per cui, come preannuncerò, consegnerò immediatamente le dimissioni del governo e indirò nuove elezioni. Quindi, dovremo ricominciare daccapo, ma in una situazione incomparabilmente migliore per la sinistra, non solo dal punto di vista elettorale ma, anche, perché questa avrà provato al di là di ogni dubbio la sua ferrea volontà democratica“. Poiché non tutti i presenti eravamo d’accordo su questa via d’uscita, ci comunicò che la sua decisione non era in discussione e ci congedò perché era in arrivo il suo fedele amico e capo dell’esercito, generale Augusto Pinochet, al quale avrebbe comunicato quanto ci aveva appena detto. Ecco perché andai a casa, con un misto di sollievo e di contrarietà – .
Come è noto Pinochet riuscì a tenere fino all’ultimo il piede in due scarpe. Ma dell’intenzione di Allende sapeva benissimo, e sapeva anche che Unidad Popular in quel referendum partiva svantaggiata. Perché i militari non vollero neanche dare visibilità a quella possibile via d’uscita? Perché ormai erano lanciati nella conquista del potere, è evidente.