Tra gli eventi che hanno segnato una generazione, c’è senz’altro il colpo di Stato militare in Cile, avvenuto l’11 settembre del 1973. L’impatto di questa vicenda, orchestrata negli Stati Uniti e mossa dalla Cia, travalica i confini dello Stato sudamericano.
In Italia l’impressione per la fine di questa democrazia è forte. E’ sulla lezione cilena che il segretario del Partito comunista, Enrico Berlinguer, vara la proposta politica del compromesso storico, un’alleanza di governo fra “le forze popolari antifasciste” di Dc, Pci, Psi per rinnovare il Paese. Senza entrare nel merito di questo progetto, Berlinguer si rende conto che le sinistre, anche se maggioranza, non potranno mai governare da sole.
Le immagini in bianco e nero che le televisioni di tutto il mondo trasmettono il giorno successivo al golpe, mostrano coltri di fumo levarsi dalla residenza presidenziale del palazzo della Moneda, sottoposta ad attacchi aerei e di terra da parte dei militari golpisti. Perché in Cile, perché questo atto?
Nei primi anni Sessanta, quando Giappone, Nord America ed Europa occidentale sono in piena espansione, in Cile regna la stagnazione economica che acuisce la povertà: l’81% delle terre è in mano al 7% dei proprietari.
Nel 1965 sale alla presidenza il democristiano Eduardo Frei, animato da un programma che mira alla riforma agraria e a ridimensionare il totale controllo statunitense della principale risorsa del Paese: il rame. Le prime fibrillazioni golpiste si avvertono proprio con i primi provvedimenti di riforma agraria. I progetti di Frei sono efficacemente contrastati e solo in minima parte attuati.
La svolta avviene nel 1970, con l’elezione del primo socialista sudamericano alla carica di presidente: Salvador Allende. La coalizione Unidad Popular che lo sostiene, raccoglie una parte delle sinistre democristiane deluse da Frei, i radicali, i comunisti e i socialisti. Nonostante le difficoltà, Allende attua la riforma agraria e un vasto piano di nazionalizzazioni, fra le quali spiccano quelle delle banche e delle miniere di rame, estromettendo senza indennizzi le aziende statunitensi dal settore minerario.
Poco importa che i provvedimenti ricevano l’approvazione del parlamento. Poteri molto più forti piegano, dapprima, la già fragile economia cilena, poi, la sua democrazia.
Il Cile subisce il boicottaggio economico statunitense, esercitato contro i suoi prodotti minerari e facendo crollare il prezzo internazionale del rame. Agisce anche l’embargo di altri Paesi latino-americani, preoccupati di una eventuale estensione del modello cileno. La finanza internazionale blocca la concessione di prestiti al Cile. Opera anche un boicottaggio interno, con dismissioni e rinunce a investimenti. L’inflazione sale alle stelle e all’inizio del 1973 tocca il 400%, scatenando il malcontento anche fra i ceti più poveri. Scioperi, disordini e insoddisfazione attraversano il Paese già nel 1971, con le manifestazioni delle massaie al suono delle pentole vuote.
Focolai di guerriglia esplodono nelle campagne. A sinistra, il movimento rivoluzionario del Mir (nato da studenti radicalizzati) contribuisce a minare la tenuta del governo. Letale, ma non fatale, il gigantesco sciopero dei camionisti, in un territorio stretto in larghezza e lungo 4.300 chilometri.
Nonostante queste enormi difficoltà, Allende non perde la fiducia dell’elettorato, affermandosi nelle elezioni alla Camera del 1973.
Il colpo di grazia è allora inferto dai militari sostenuti dall’amministrazione statunitense, sempre lesta a intervenire dinanzi a governi sudamericani ostili: lo squalo fra le sardine, come suggerisce la metafora del saggio in forma di favola di Juan Josè Arévalo.
La figura chiave che abbatte la democrazia è Augusto Pinochet, nominato da Allende, neanche un mese prima, capo delle Forze armate. L’ufficiale deve gli ultimi due importanti avanzamenti di carriera proprio al presidente, ma ne tradisce la fiducia mettendosi a capo dei golpisti quando comprende che il moto interno ai militari avrà successo.
Sferrato l’attacco, Allende non cede all’intimazione dei congiurati, non gli interessa avere salva la vita, non riconosce la legittimità di chi, con la forza, lo vuole cacciare. Le sue ultime foto da vivo lo ritraggono con un elmetto e un mitra in mano, assieme agli uomini che gli sono rimasti fedeli. Il presidente morirà in quegli scontri, chi dice assassinato, chi dice suicidato. Allende, nel suo ultimo proclama, conoscendo già il suo destino, denuncia il tradimento subito, senza perdere la fiducia in un futuro migliore. Ma i giorni che seguono, in Cile, sono tragici: arresti e torture di massa, lo stadio di Santiago stipato di prigionieri per giorni.
Conteggi non ancora completati segnalano in 32.000 le vittime della Giunta militare nei 16 anni di potere (Valerio Castronovo, Piazze e caserme) e 130.000 gli arrestati nei primi tre anni, colpevoli soltanto di professare idee diverse dal dittatore.
Conquistato il potere, Pinochet restituisce le miniere di rame alle multinazionali statunitensi, revoca la riforma agraria e le misure sociali. Negli anni Ottanta la sua Giunta si muove su una linea economica ultraliberista, tanto da guadagnare gli elogi del Primo ministro inglese Margaret Thatcher, che al dittatore deve il sostegno nella guerra delle Falkland contro l’Argentina.
Il Cile diventa un antesignano della nuova economia: cresce il Pil e diminuisce l’occupazione, tornano gli investimenti, ma in quindici anni si triplica anche il debito estero. Pinochet, convinto di avere il sostegno popolare, nel 1988 sottopone la sua permanenza al potere a un referendum che, a sorpresa, perde: il 56% dei votanti – con atto di coraggio – gli vota contro.
Ancora negli anni Novanta Pinochet riesce a blindare la democrazia, garantendosi la carica di capo delle Forze armate e, soprattutto, assicurando l’impunità agli assassini e agli aguzzini.
Nel 1994 il giornalista Fabrizio Del Noce davanti a una platea di Forza Italia affermò che Pinochet “non era male” perché aveva restituito la democrazia ai cileni, dimenticandosi di dire come gliela aveva tolta.
Per curiosa coincidenza o silenziosa nemesi, Pinochet muore da impunito il 10 dicembre 2006, giornata internazionale dei diritti umani.