Sentiamo spesso parlare del fatto che l’economia italiana è troppo poco presente nei settori ad alta tecnologia e è troppo sbilanciata, invece, verso i settori tradizionali. E’ un ragionamento però troppo astratto. Quali dovrebbero essere i settori ad alta tecnologia che vorremmo avere in Italia? In che misura è davvero preferibile avere l’alta tecnologia?
Prendiamo la Microsoft che periodicamente aggiorna il proprio prodotto, Windows, ne produce una nuova versione Windows 7, ad esempio, e lo vende sul mercato. In base alla convenzione diffusa, questo rappresenterebbe un’innovazione di prodotto ad alto contenuto tecnologico ma in realtà si tratta di miglioramenti, spesso marginali, di un prodotto che oramai è piuttosto maturo.
Lo sforzo invece sostenuto da imprese che operano nel settore dell’arredo casa, per progettare e sviluppare nuovi materiali da usare nelle nostre abitazioni, con caratteristiche di minore impatto ambientale, di maggiore conservazione del calore, di maggiore flessibilità di impiego e allo stesso tempo di maggiore valore estetico viene catalogato come un investimento in un settore tradizionale a basso contenuto tecnologico. Ho dei dubbi seri su questo genere di contrapposizione. Ma il tema certo meriterebbe molto più spazio.
L’industria della moda e abbigliamento è tra i nostri punti di forza, da vari secoli. In questi anni tuttavia abbiamo subito una grave perdita di competitività anche in questo settore. In molti altri paesi stanno crescendo capacità di design e realizzazione di abiti e tessuti di elevata qualità. Dal 2006 nel settore del tessile e abbigliamento in Italia abbiamo perso 86.000 posti di lavoro e varie altre decine di migliaia nel settore delle calzature. Si è trattato per lo più di lavori a minore contenuto di capitale umano, lavoro insomma low-skilled che più agevolmente può essere trasferito in paesi a più bassi salari medi.
Ma l’elemento di maggiore preoccupazione deriva dal fatto che moltissime imprese italiane nel settore della moda fanno fatica a trovare lavoratori qualificati. La Tod’s che produce nelle Marche impiega lavoratori ad altissima qualificazione. Lo stipendio iniziale di un giovane tagliatore di pelle è di circa 18.000 euro netti all’anno eppure le imprese del settore pelle e calzature hanno serissime difficoltà a trovare giovani disposti a svolgere questo lavoro. Stesso ragionamento si applica ai sarti e ai tanti lavori manuali, ma ad elevato contenuto di capitale umano, legati con la moda, tessitori, modellisti, disegnatori, cucitori, etc. Molte imprese italiane della moda vanno già da tempo a cercare esperti di maglieria in Bosnia e in Moldavia, ma anche li trovano spesso solo persone di mezza età, difficilmente disposte a venire a Firenze o a Milano per lavorare.
Vi è il pericolo concreto che nell’arco di venti anni la nostra industria della moda subisca un tracollo per mancanza di manodopera qualificata. Tutto questo in un paese nel quale il tasso di disoccupazione è al 12,5 per cento e quello giovanile prossimo al 40 per cento.
Certo bisogna studiare per diventare sarti. Ci vogliono anni di pratica per diventare tagliatori di pelle e così via. Servirebbe un vero sistema di scuola, formazione e apprendistato. Servirebbe più coraggio nelle politiche di formazione e collocamento. Ma servirebbe anche un approccio diverso verso i lavori manuali. Siamo troppo spesso vittime di una cultura piccolo-borghese secondo la quale è meglio aspirare a un posto di impiegato all’Ufficio del catasto piuttosto che fare un lavoro manuale anche se meglio pagato.