O almeno non se ne parla più fra i politici, salvo rare occasioni. Che vuol dire?
Di mafia, fra i politici, non se ne parla più. Perfino la Commissione antimafia, al momento in cui scriviamo, non è stata ancora ricostituita. Assente in genere l’argomento dall’agenda politica dei (vecchi e nuovi) partiti. Prudentissimi i toni e poche le citazioni, peraltro sempre legate a episodi specifici e mai a una visione complessiva, “politica” per l’appunto, di ciò che la mafia rappresenta – caso unico – nel nostro paese. Come mai?
In primo luogo, per il clima generale di rimozione degli argomenti “profondi”, direttamente sociali. Neanche il golpe industriale di Marchionne (che ha inciso sulla vita comune più di ogni altra cosa), ad esempio, viene più nominato.
In secondo luogo perché fra tutti questi argomenti la mafia è quello che più direttamente tocca la questione dei poteri, di chi comanda in Italia, non formalmente alle Camere o nel governo ma proprio nella nostra vita quotidiana. Il potere reale.
Il potere mafioso, negli ultimi vent’anni, in Italia si è esteso a dismisura. Non solo nei fatturati e nella potenza finanziaria – che ormai sono i primi del Paese – ma nella repressione sociale e nelle egemonie culturali. La transizione da paese democratico a paese amministrato, da società conflittuale a società di vertici, non sarebbe stata possibile senza questo dato.
Gli esempi più eclatanti sono in Sicilia e in Lombardia. Ma ormai è quasi tutto il paese ad essere – da questo punto di vista – ”mafioso”, caso unico al mondo salvo, più rozzamente, Messico e Colombia.
Per questo parlare di mafia, di poteri mafiosi, è così scomodo e impopolare. Perché evoca un conflitto insanabile, non di istituzioni e politica ma di interessi concreti, di società, che nessuna ha voglia di riportare a galla perché nessuna “forza politica” sarebbe in grado di dominarli.
Senza Ligresti niente Formigoni, senza Formigoni niente Milano “controllata”. Una Milano bigotta e cocalera al posto della città turatiana e allegra di prima: più assai dell’arcaica Sicilia cuffariana, il trend del potere mafioso oramai è questo. E su questo terreno va affrontato.
L’antimafia pertanto non è più solo la denuncia dei boss che sparano, ma molto di più. E’ lo studio preciso e puntuale dei poteri, la denuncia di essi, e anche l’organizzazione e la cultura che servono a noi esseri umani per rimuoverli.
Questo è il nostro lavoro, e a questo fra l’altro servono tutte le cose che andiamo disordinatamente facendo – ma è un disordine fecondo, l’opposto del centralismo – nella nostra piccola rete di gente “strana”. Giovani, senza potere, precari come tutti gli altri, dispersi in città e paesi e con idee diversissime, salvo una: vivere sotto un potere non ci va più.
Non saranno facili, per noi, i prossimi mesi. Non ci concentreremo su un punto – come sarebbe logico, deboli come siamo e senza aiuti – ma cercheremo di affrontarli tutti. Continueremo a fare le inchieste, sempre più inchieste, su i boss e le strutture mafiose, ma non dimenticando un istante che appartengono a un sistema complessivo. Ieri i Cavalieri mafiosi e Comiso, oggi i rapporti ampi mafia-politica e Niscemi; ieri il ragazzo Michele dal paesino alla grande fabbrica, oggi il ragazzo Ahmed che va, attraverso infinite traversìe, in cerca di una terra più umana. La lotta per la pace non è mai stata un di più, per noialtri, né le lotte dei poveri e la loro vita; entrambi hann o fatto parte fin dalle origini, insieme con la battaglia dura contro la mafia, dell’anima dei “Siciliani”. Quest’anima per noi ha un nome e un cognome, ed è quello di Giuseppe Fava. “Con coraggio ha combattuto la mafia, ne ha denunciato le connivenze col potere, si è battuto contro l’installazione dei missili…”. Questo hanno scritto sulla loro povera lapide di legno, trent’anni fa, gli studenti di Catania, e questo noi ricordiamo ora.
Giuseppe Fava, d’altra parte, non è uno: si chiama pure Mauro, si chiama Peppino Impastato, o Giovanni, o Cosimo o Mario o Giancarlo o Mauro o Beppe. Si chiama come ogni uomo che lotta, che fa la propria vita sulla terra. Così come “siciliani” non indica una sola terra, ma ogni angolo del mondo in cui il travaglio e il dolore degli esseri umani si trasformino, anche solo per un attimo, in dignità, in solidarietà e in speranza.
Questi uomini, per il sistema, sono ancora vivi e pericolosi; perciò cerca di trasformarli in monumenti, di cancellarli; e di cancellare ogni traccia (Scidà e D’Urso a Catania, i vecchi antimafiosi a Palermo, i giovani degli anni ’80, i primi militanti della Rete, quelli della Pantera) di coloro che combatterono accanto a loro. “Sono loro la vera mafia, sono la mafia di carta!” hanno detto. Ma noi ricorderemo questi uomini, nei prossimi mesi, come loro vorrebbero essere ricordati: non con celebrazioni e bei discorsi, ma organizzando. Da qui al cinque gennaio cercheremo di essere anche più attivi del solito, più combattivi. Trent’anni non sono niente, se sappiamo ricominciarli ogni giorno.
Perciò “compagni, al lavoro e alla lotta!”, come avrebbe detto Pio La Torre. Ci sono infinite cose da fare, a Catania, a Bologna, a Milano, a Palermo, a Roma (non sono nomi casuali: sono quelli in cui non abbiamo ancora giornali stampati, e dovremo cercare di metterli in piedi…).
In Italia il 10 per cento delle famiglie possiede il 47 per cento della ricchezza. Solo l’8,5% dei figli di operai diventa professionista o imprenditore. Negli ultimi vent’anni 230 miliardi di euri (dati Banca d’Italia) sono passati dagli stipendi ai profitti e alle rendite. Il fatturato annuo delle organizzazioni criminali oscilla sui 180 miliardi (53 solo la ‘ndrangheta), circa il 15 per cento del Pil. La disoccupazione giovanile è al 39,5 per cento;e supera il 50 per cento per donne e ragazzi del Sud. Queste sono delle cifre.
In Italia, appena due anni fa, ben ventisette milioni di elettori hanno votato massicciamente contro i poteri forti (referendum acqua, ecc.), e ancora pochi mesi fa la maggioranza degli elettori si è espressa, caoticamente e rozzamente ma con chiarezza, a favore d’un cambiamento epocale. Queste sono delle altre cifre. Fra le une e le altre si svolge, senza illusioni ma con forza e chiarezza, tutto il lavoro nostro.
C’è un terreno preciso su cui si può tenere insieme il paese, effettuare la transizione su un terreno solido, ed è l’antimafia.
Antimafia non è fare una celebrazione ogni tanto. Antimafia è spazzare via il potere mafioso e tutti i suoi interlocutori imprenditoriali e politici, e non solo al Sud. Uno Stato sociale efficiente, una scuola pubblica che funzioni, una produzione industriale che non sfugga più, come ora, nei poco chiari rivoli della finanza “moderna”. Riportare la soluzione dei conflitti sociali sul terreno naturale del contratto e non della dittatura. Dividere i sacrifici, spremere dalla borghesia mafiosa l’illecito accumulato. Confiscare i patrimoni illeciti – da mafia e da corruzione – e darli in gestione a giovani lavoratori.
E’ una precisa politica, non un insieme di buone intenzioni. Non chiede una terza repubblica, o una seconda o una quarta, ma semplicemente la nostra buona Repubblica del ’46, quella che ci ha fatto Nazione.
Il vecchio regime non ce la fa più, coi gerarchi travolti da scandali vergognosi. Il nuovo vorrebbe cambiare, ma nei limiti dei gattopardi. Nulla cambierà davvero se non dal basso, ed è la lotta antimafia, non quella di improbabili santoni, il luogo su cui il “dal basso” può contare senza strumentalizzazioni, senza mezze misure e per davvero.
A questo “partito” dell’antimafia sociale, che non si vota ma ha fatto e fa la storia d’Italia, noi restiamo fedeli.
Fare giornalismo antimafia e fare lotta, oggi come ieri, è possibile solo a costo di rinunciare a una vita “normale”. Non tanto per i rischi fisici – che liberamente si accettano – ma per l’estromissione dai principali circuiti politici e professionali. Non è un prezzo troppo alto, considerando gli obiettivi. Ma il prezzo è ancora tale, ed è bene che non ci siano equivoci su di esso.