Il Giappone ha ottenuto i Giochi che si svolgeranno tra sette anni. Molti hanno già espresso preoccupazione per lo tsunami immobiliare in arrivo. A farne le spese potrebbe essere il suggestivo quartiere immortalato da Ozu e, più recentemente, da Wim Wenders. Istruzioni per l’uso, finché c’è ancora
Oramai il Cio ha deciso: le Olimpiadi del 2020 si terranno a Tokyo. Conosco personalmente almeno tre colleghi giapponesi (immagino ce ne siano anche altri) che si sono già lanciati alla ricerca di prove, o quanto meno indizi, di come abbiano fatto le autorità di Tokyo – e il governo giapponese – a convincere il Comitato olimpico internazionale. Per quanto mi riguarda, da buon pragmatico, ho già cambiato idea. I giapponesi amano le sfide, le scadenze: chissà che questa decisione, assolutamente azzardata (sette anni mi sembrano pochi per “risolvere” il problema Fukushima, e voglio vedere cosa succederà se, come è assolutamente possibile, a pochi mesi dall’apertura dei Giochi scoppiasse un’altra emergenza nucleare) non funga da sprone per tutti (governo e management della Tepco, soprattutto) ad affrontare con più impegno, determinazione ed efficacia la situazione. Nel frattempo, preoccupiamoci di altre, possibili, emergenze. Da sempre, le Olimpiadi hanno scatenato la speculazione immobiliare. Succederà anche stavolta, il che sarà un vero e proprio disastro, per un mercato che, grazie alla crisi di questi ultimi anni, si era appena attestato su prezzi accettabili.
L’imminente tsunami immobiliare, oltre a rendere definitivamente impossibile quello che già oggi è difficile, e cioè l’acquisto di una casa per una giovane coppia rischia di travolgere le poche, a volte minuscole quanto preziose, perle rimaste intatte all’interno di quello che Roland Barthes definì il “rizoma” urbano di Tokyo. Uno di questi è Golden Gai (con la “i” finale, mi raccomando, non la “y”: in giapponese i due caratteri 金街 significa “strada dorata”). Il “quartiere”, aperto solo dall’imbrunire all’alba, si trova incastonato nel ventre di Shinjuku, uno dei “centri” di Tokyo, ed è uno dei pochi sopravvissuti pressoché intatti, con le sue minuscole casette di legno a due piani strozzate da un groviglio di fili e di tubi esterni, alla distruzione della guerra, a vari incendi e a ben due “bolle” speculative: quella degli anni ’60 e quella degli anni ’80. Difficile capitarci per caso, o anche trovarlo, anche se con il Gps dei telefonini anche questa avventura ci è stata sottratta; ancor più difficile entrare, se non opportunamente “accompagnati” da un cliente conosciuto, in uno dei 114 locali dove si chiacchiera, si scherza, si discute, talvolta persino si litiga, ma soprattutto si beve, di tutto e di più, senza alcun ordine enogastro-culturale, anzi: in aperta sfida con le regole più o meno universalmente riconosciute. Tranne rare e recentissime eccezioni, in tutti i minuscoli locali del quartiere si serve alcol di bassa se non pessima qualità, e normalmente è il gestore, che con ciascuno dei suoi clienti ha un rapporto personale spesso di molti anni, che decide cosa, quando e quanto servirvi. In genere la scelta è tra birra, pessimo vino, whisky annacquato e sake, talvolta di discreta qualità. Anche per il conto è una sorta di o-makase (“a piacimento”): alla quota fissa (in genere tra i 1000 e i 2000 yen, 8-16 euro) il gestore aggiunge quello che gli pare, in base a quanto vi ha servito ma anche al suo umore e al “livello” della serata. Una chicca, per il Giappone, dove tutto è organizzato, preciso, scontato e scritto: persino il “menu” dei bordelli.
In questa “oasi anarchica”, come la definì durante una storica serata passata in compagnia di altri intellettuali locali e stranieri Akiyuki Nosaka, grande ma ahimè quasi sconosciuto all’estero romanziere, una volta debitamente “introdotti”, è possible incontrare, rigorosamente per caso (in genere non ci si dà un appuntamento, semplicemente ci si ritrova lì) il meglio e il peggio della variegata, spesso inavvicinabile, società tokyoita. I locali, decisamente minuscoli (3/4 metri quadri, al massimo possono entrarci una decina di persona, spesso meno) sono ordinati per genere e settore (giornalisti e scrittori, attori, sessantottini e in genere epigoni vari della sinistra antagonista, musicisti, cinefili, etc etc) e al loro interno non si è costretti, anzi, si è “ambientalmente” diffidati, dal rispettare le rigorose regole della “comunicazione” giapponese. Niente inchini, presentazioni ufficiali, scambio di bigliettini, utilizzo del cosiddetto “keigo”, il registro “nobile”, sofisticato della lingua. Una volta “accettati” con un cenno, spesso discreto per non provocare imbarazzo in caso di rifiuto, della mama-san (in caso di donna) o del mastaa (dall’inglese “master”, in caso il gestore sia un uomo) ci si siede dove c’è posto, intorno al bancone, o comunque dove decide il gestore. Guai a farsi notare troppo, a salutare personalmente gli altri avventori (bastano piccoli, discreti cenni del capo) anche se si conoscono da anni, e guai a intervenire subito in una discussione già in atto o, peggio ancora, interromperla per proporne un’altra. Non si fa. Si attende, anche per lungo tempo, il proprio turno, che in genere scatta quando la mama-san o il mastaa vi chiedono direttamente di intervenire. Da quel momento siete “sdoganati”, liberi di dire la vostra, fare battute, discutere anche animatamente. Con la soddisfazione (e il rischio) di non sapere con chi state parlando, a meno non lo conosciate già, quanto meno di viso. Ma spesso succede che solo a distanza di giorni vi rendiate conto di aver discusso e bevuto insieme fino all’alba con un grande scrittore, un attore o regista famoso, o magari un ex-terrorista.
E’ in uno dei locali “storici” di Golden Gai, la Jetèe – la padrona, madame Tomoyo, è un’appassionata di cinema e ha dedicato il suo frequentatissimo locale al famoso film “cult” del regista francese Chris Marker – che a suo tempo portammo, con un collega francese, Wim Wenders. Il posto gli piacque così tanto che un paio di anni dopo decise di includerlo nel suo stupendo documentario Tokyo-ga, uno dei più delicati e sofisticati tributi alla “bellezza” di Tokyo. Da allora questi locale è frequentato da registi di tutto il mondo: personalmente vi ho incontrato, soli o al massimo con un/una partner, Quentin Tarantino, Ken Loach, Coppola, e tra gli italiani Edoardo Winspeare e Mario Martone.
Speriamo che Golden Gai e la combattiva associazione dei commercianti che rappresenta tutti i suoi locali resista ancora una volta. La decisione del Cio è dell’8 settembre e già ho ricevuto messaggi preoccupati e appelli da parte di alcuni gestori, che chiedono alla stampa internazionale di dare una mano per fermare il nuovo arrembaggio degli speculatori e della yakuza. Che in questi casi usa i cosiddetti “jiageya” (letteralmente “liberatori delle terra”). Prendono regolare appuntamento, si presentano con tanto di bigliettino da visita e cercano di convincere i piccoli proprietari a vendere, spesso offrendo sin dall’inizio cifre da capogiro. Qualcuno cede, qualcuno chiede di pensarci su. Quelli che ci pensano troppo finiscono per ritrovarsi il locale devastato, se non incendiato. Nel frattempo, i prezzi sono già schizzati: “Erano mesi che cercavo di vendere e non ci riuscivo – confessa il titolare di un locale – da qualche giorno non faccio che ricevere offerte. Ma sai che ti dico? Quasi quasi ci ripenso. Le Olimpiadi faranno risorgere il Giappone, non è certo quest il momento di vendere”.
Staremo a vedere. Nel frattempo, se andate a Tokyo, non perdetevi Golden Gai e se non avete nessuno indigeno che possa scortarvi in un girone un po’ più esclusivo, puntate alla Jetèe. Madame Tomoyo, anche senza adeguata presentazione, vi accoglierà senz’altro. Ma se vi dice che non c’è posto, nonostante il locale sia vuoto, non insistete. Non si fa.