Le carte dell'inchiesta dei pm di Siena mettono in luce un patto bipartisan degli incarichi tra Fondazione Mps e Rocca Salimbeni. Nei fascicoli compaiono i nomi di Denis Verdini e di Massimo D'Alema. Dopo la fine della "stagione Mussari", però, la palla è passata definitivamente al partito berlusconiano, con la nomina di Antonella Mansi alla guida della Fondazione
Ha mai discusso con i politici della possibile fusione tra Antonveneta e Monte dei Paschi?, chiedono i pm di Siena il 31 gennaio a Ettore Gotti Tedeschi, numero uno in Italia di Santander, la banca che ha venduto Antonveneta a Mps. Risposta: “No, lo ritenevo pernicioso”. A osservare oggi le macerie cui è stata ridotta Rocca Salimbeni, Gotti Tedeschi, uno che il potere lo conosce più del Vangelo, aveva ragione: coinvolgere i politici nella gestione di un istituto di credito sarebbe stato pernicioso, avrebbe cioè – dal dizionario – recato un grave danno. Come è avvenuto a Siena. E non sono girate tangenti, hanno detto i pm chiudendo la prima parte dell’inchiesta. Ma per un semplice motivo: perché la tangente era la gestione della banca e la pioggia di milioni da distribuire.
La politica si spartiva le poltrone tra fondazione e Rocca Salimbeni, incarichi distribuiti con calcoli matematici e messi persino nero su bianco nel 2008 da Denis Verdini per il Pdl e Franco Ceccuzzi per il Pd. Un accordo di non belligeranza sin da subito ritenuto utile dagli inquirenti che infatti appena emerse (il Fatto ne scrisse a febbraio) aprirono un nuovo fascicolo.
Pernicioso. Appunto. A leggere le carte dell’inchiesta ciò che impressiona non è tanto l’evidenza con cui la politica ha spremuto Mps, ma di come per farlo abbia anticipato le larghe intese del governo Letta. La spartizione, prima riservata al centrosinistra poi, quando i problemi della mala gestione finanziaria stavano emergendo, estesa anche al Pdl. Nei verbali si passano in rassegna i vertici dei due principali partiti. Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Franco Bassanini, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani. Poi Gianni Letta, Silvio Berlusconi, Denis Verdini. Per citarne alcuni.
Gabriello Mancini, ex presidente della fondazione, lo dice chiaramente ai pm nel luglio 2012: “La mia nomina, come quella dell’avvocato Mussari alla guida della banca, fu decisa dai maggiorenti della politica locale e regionale e condivisa dai vertici della politica nazionale”. Ai pm spiega che “l’onorevole Ceccuzzi mi riferì che anche per i Ds vi fu un assenso a livello nazionale” e che poi, lo stesso Mussari, “mi confermò di avere il sostegno del partito nazionale”. Alle parole di Mancini aggiunge particolari importanti Ceccuzzi: Mussari era il trait d’union tra centrosinistra e centrodestra e che la scelta di Mussari fu raggiunta da Fassino, D’Alema e altri del centrosinistra. L’assenso del Pdl c’era già: “Il punto di riferimento di Mussari nel Pdl era Verdini” ma aveva “dei rapporti” anche con Gianni Letta. “Ricordo che Letta – sostiene Mancini – affermava che Mussari era il suo riferimento in banca, io in fondazione”. Verdini e Letta agiscono con il via libera di Berlusconi. “Chiesi a Letta (Gianni, ndr) circa la nomina del componente del Cda in quota Pdl ed egli mi disse che andava bene la conferma di Pisaneschi, ma che avrebbe dovuto parlarne con il Berlusconi per la definitiva conferma”. Che arriva, due giorni dopo. Il senatore del centrodestra Paolo Amato ha smentito l’esistenza del papello ma aggiunge: “Pisaneschi non è stato nominato da Verdini, ma è stato il frutto del ‘groviglio armonioso’ senese. Poi Verdini lo ha gestito”.
Sono anni in cui Verdini gestisce anche il Credito Cooperativo Fiorentino: una banca con soli sette sportelli ma in grado di garantire all’amico Marcello Dell’Utri, tra l’altro, ipoteche di terzo grado nonostante l’esposizione di decine di milioni. E interviene anche su Mussari. Per chiedere aiuti vari. Il Ccf non esiste praticamente più, annientato dai favori fatti agli amici. Mps resisterà, ma la politica non impara mai.
E non si tira indietro neanche quando nel 2012 Banca d’Italia invita Mps a cambiare i vertici: i dettagli della mala gestione della banca cominciano a emergere. Eppure, ricorda Ceccuzzi, “per quanto volessimo tagliare con il passato” e “fossimo contrari alla riconferma di Mussari (…) Monaci era favorevole”. Ricorda Mancini “di aver avuto alcuni colloqui con Bersani e D’Alema”. Mussari si dimise solo ad aprile. E per far arrivare Alessandro Profumo, a chi si rivolge Ceccuzzi? A D’Alema . “Sapevo che erano amici”.
Ora Alessandro Profumo è presidente di Mps e proprio oggi alla guida della Fondazione si insedia Antonella Mansi. Amica di Mussari, legata a Giorgio Squinzi e vicina a Verdini che nel 2009 voleva candidarla come presidente della Regione Toscana per il Pdl ma lei rifiutò. E la sua nomina sembra quasi sancire un passaggio di mano definitivo della gestione del potere in terra di Siena dal centrosinistra al centrodestra. Del resto i musei qui sono già stati affidati a Civita di Letta (e anche su questo è in corso un’inchiesta). In Fondazione è la prima volta, inoltre, che non ha vinto il “candidato” dal sindaco. Il primo cittadino, Bruno Valentini, ha sostenuto l’ex garante della privacy Francesco Maria Pizzetti. E aveva mandato un sms a Matteo Renzi: “Allora procedo così per le nomine?”. L’abitudine. Ma il sindaco di Firenze l’ha poi svelato pubblicamente dicendo di aver risposto “Bruno, ma che c’entro io con le nomine di Mps? la politica deve starsene fuori”. Perché è un connubio pernicioso, dice Gotti Tedeschi, ma anche perché ormai, ripetono i toscani, “lì i danni l’han tutti già bell’e fatti”.
Da Il Fatto Quotidiano del 13 settembre 2013