Musica

Una band riesce a sopravvivere al proprio frontman?

La collaborazione tra gli Stone Temple Pilots e Chester Bennington (già cantante dei Linkin Park) è da una parte una “ciofeca” bella e buona, dall’altra il brano che t’aspetteresti e vorresti sentire: riff trainante all’inizio, strofa sulla falsa riga e ritornello d’ampio respiro che, questo sì, sembra rubato veramente ai “migliori” episodi della band losangelina. Per quanto io non credo ne esistano poi così tanti, poiché – parere personale – i Linkin Park da sempre li avrei voluti vedere ovunque fuorchè su un palco o in un negozio di dischi.

Ma cosa succede quando le band, quelle famose, provano a sopravvivere ai loro frontman? Morti o vivi che essi siano, poco importa ai fini del nostro discorso.

Messo da parte Scott Weiland, che pure già con i Velvet Revolver aveva dato prova di poca professionalità (ad esser buoni) mancando forse l’occasione della sua vita, ecco che mi viene subito in mente l’operazione disgustosa (alla quale assistetti) messa in piedi dai Queen ormai una decina d’anni fa, quando decisero di imbarcarsi per un tour (credo mondiale) con Paul Rodgers alla voce: premesso che già l’esercizio Made In Heaven (1995) aveva ben poco di nobile, trattandosi per lo più di tracce riconducibili ai lavori solisti di Freddie Mercury e qui opportunamente riarrangiate in chiave Queen.

Una tendenza che potremmo definire di vera e propria “necrofilia musicale”, che incontra spesso i favori del pubblico (altrettanto degente) e che in questo caso venne resa ancor più palese dall’abbandono, subito dopo, del bassista John Deacon nonché dall’utilizzo, reiterato, dell’ologramma di Freddie Mecury ogni qualvolta ciò si sarebbe reso necessario: l’esperimento fallì definitivamente con l’uscita addirittura di un disco di inediti, quel “The Cosmos Rocks” di cui quei pochi che l’hanno comprato si saranno come minimo vergognati fino alla morte.

Di tutt’altro spessore la carriera invece dei Black Sabbath senza Ozzy Osbourne, al cui abbandono seguirono – su tutti – 3 album con Ronnie James Dio che per molti (compreso il sottoscritto) se non superano i lavori della formazione originale, ci si avvicinano e non poco. Rimanendo più o meno in tema (e genere) mi fa invece sorridere pensare alla parabola fulminea degli Skid Row: partiti col botto con due album – “Skid Row” (1989) e “Slave To The Grind” (1991) – finiranno poi maciullati dal grunge, dalla produzione di Bob Rock (anche loro) e dall’abbandono del cantante Sebastian Bach: altro grande incompiuto. Stessa sorte toccò ai Van Halen di Sammy Hagar, che continuarono sì a navigare nell’oro e negli eccessi (a dispetto di una produzione scadente) ma non trovarono evidentemente la quadratura del cerchio, tanto da riunirsi qualche anno fa con l’ex David Lee Roth e sfociare così nell’ultimo “A Different Kind Of Truth” (2011): che è, neanche a dirlo, composto per lo più da “scarti” (alcuni validissimi) della prima ora.

E se i Nirvana non potevano proprio sopravvivere alla morte del buon Kurt Cobain, non dello stesso avviso sono stati gli Alice In Chains, capitanati – ora più che mai – dal survivor Jerry Cantrell e dal nuovo cantante e chitarrista William Duvall, che nonostante la somiglianza con Lenny Kravitz si è finora dimostrato più che “degno”: la band del fu Layne Staley ha prodotto negli ultimi 4 anni ben 2 album di inediti, tra cui l’ultimissimo “The Devil Put Dinosaurs Here” (2013).

Menzione speciale meritano sicuramente, su tutt’altro versante, i Guns N’ Roses di Axl Rose: unico rimasto – della formazione originale – a portare in giro il nome della band americana, l’unica forse a tener testa all’invasione grunge di cui sopra e garantire e a sancire, in quegli anni, l’uscita di scena definitiva dagli anni ’80. Qualcuno, a torto o ragione, li ha ironicamente ribattezzati gli “Axl N’ Roses”, pungolando il cantante (ormai 50enne) originario di Lafayette, che tanto se la prende a farglielo notare.

Non potremmo che chiudere, anche e sopratutto per questione di brevità, con l’esempio ultimo dei Pink Floyd, che da Syd Barrett passarono alla leadership di Waters e Gilmour, senza snaturare la “mission” di una band che incantava prima e ha incantato dopo, così come nel mentre.

Un auspicio che riponiamo accuratamente in tasca, sperando che prima o poi dall’aldilà qualcuno si faccia sentire a gran voce: come ai bei tempi, quelli andati.