Fino a ieri la sua firma era legata alle inchieste de Il Giornale. Ora comparirà nella gerenza de Il Tempo di Roma alla voce più importante: direttore. Gian Marco Chiocci si separa da Massimo Malpica, il collega “gemello” da lui ribattezzato, e va a dirigere la storica testata romana, diretta da Mario Sechi prima che abbandonasse il timone per candidarsi con Mario Monti. Chiocci ha già trasferito i suoi scatoloni da via Negri, sede milanese del quotidiano di Allessandro Sallusti, a Palazzo Wedekin, con Montecitorio e Palazzo Chigi a due passi. Da oggi occupa il posto di Sarina Biraghi, che rimarrà al suo fianco come condirettore. “E’ come tornare a casa – racconta il neo direttore, intervistato da ilfattoquotidiano.it – io Il Tempo l’ho respirato da bambino, ci ha lavorato mio padre per tanti anni, poi è stato il mio turno tra la fine degli anni ’80 e gli inizi ’90, e dopo vent’anni trascorsi a Il Giornale sono tornato qui da direttore con il compito di rilanciarlo. Non l’avrei mai immaginato”.
Il Tempo naviga in cattive acque. A luglio il suo editore, il costruttore Domenico Bonifaci, ha venduto una palazzina in via Flaminia per garantire lo stipendio ai giornalisti e non rimanere schiacciato da un debito di 7 milioni di euro. Le copie vendute negli anni si sono più che dimezzate e adesso viaggiano sull’ordine delle 35mila. Il lavoro è arduo, ma Chiocci sembra avere le idee chiare per riportare in auge la testata che fu di Renato Angiolillo e di Gianni Letta: “Voglio rilanciarla utilizzando quello che molti giornali non fanno più: le inchieste. Non ricicleremo i lavori di altri, non baseremo tutto sulle carte delle procure, ma faremo un giornalismo fatto di sudore e strada, andremo a scavare dove gli altri non guardano”.
Oggi il Tempo apre con un’inchiesta sulla magistratura, “dati sconcertanti per un paese civile come l’Italia, vedrete”. E si vocifera di un ritorno al caro filone “Fini- Tulliani”, con notizie inedite sul caso dell’appartamento di Montecarlo ereditato da An e venduto al cognato dell’allora presidente della camera, Gianfranco Fini, al modico prezzo di 300mila euro, tramite il giochino delle società off-shore. Chiocci non smentisce: “Ci potrebbero essere delle novità che se non più attuali risulteranno simpatiche agli occhi degli affezionati”. Molto attento anche ai mille problemi della Capitale, i suoi giornalisti sono già a lavoro per scandagliare l’amministrazione Marino: “Abbiamo trovato un modo originale e simpatico per incalzare il primo cittadino, ma lo faremo senza pregiudizi, non andiamo contro a priori”. Ci saranno nuove firme, tra le quali noti magistrati. L’argomento giustizia, insomma, sarà centrale: “Non saremo un giornale berlusconiano, il nostro è un giornale vicino al centrodestra, ai nostri lettori, ma non saremo la fotocopia di Libero e Il Giornale”.
Guai, però, a parlare di giornalismo fazioso, come capitò nell’inchiesta della casa di Montecarlo: “Quella su Fini non è un’inchiesta nata su input di Berlusconi o basata su dossier tenuti nascosti. E’ nata in modo molto banale come capita spesso a molte inchieste, fatta in un luogo, come Montecarlo, ostile ai giornalisti, dove non vai al catasto a prendere i documenti, dove tutto è riservato. E’ stata un’indagine sudata”. La definizione di macchina del fango è per Chiocci un paradosso: “Non mi sono mai sognato di dire che un Marco Lillo o un Peter Gomez fanno inchieste faziose. Se la notizia c’è, punto. Bisogna smetterla di dire che il giornalismo vero sta soltanto da una parte. A sinistra sono da premio Pulitzer, dall’altra c’è il fango. Se l’inchiesta è fatta bene, è documentata e nulla è scritto fuori luogo questo conta”.
Non solo Fini-Tulliani, però. Chiocci è stato anche il cronista da sguinzagliare contro Emma Marcegaglia, nella famosa telefonata intercettata tra il vicedirettore Porro e l’allora portavoce della presidente di Confindustria: “Porro è un cazzone, fa un sacco di battute, non mi ha mai detto vai dalla Marcegaglia e rompigli il culo”. Una telefonata scherzosa, dunque, anche se l’entourage di viale dell’Astronomia prese molto sul serio la cosa. E poi ci sono i famosi articoli contro Dino Boffo che fanno addirittura scuola, consolidano un “metodo”. “Puoi non condividere alcune inchieste, ma mai Sallusti mi ha detto vai e scrivi questo – precisa Chiocci – Su Boffo, ad esempio, trovai dei riscontri, ma altri non confermavano la storia. Non fui mica obbligato a scrivere il pezzo, anche se poi decisero di proseguire in un altro modo”. A costo di commettere errori. “Sì ci furono delle imprecisioni e delle imparzialità – ammette Chiocci – Ma di sicuro non fu pubblicato per delegittimare qualcuno, perché altrimenti potremmo dire la stessa cosa della stampa anti-berlusconiana”.
Poi Chiocci paragona Il Giornale a Il Fatto Quotidiano. “Le vostre inchieste sono ossessive nei confronti di Berlusconi, le nostre contro i magistrati – tiene a specificare il neo direttore – ognuno la vede in un certo modo”. Ma di una cosa è sicuro l’ex giornalista di via Negri: “Fare inchieste a Il Giornale è stato molto difficile, la magistratura se sbagli è implacabile nei nostri confronti, abbiamo subito perquisizioni incredibili, intercettazioni pazzesche”. Adesso la vita da inviato è alle spalle: “Gli spazi di manovra ci sono, la direzione mi dà l’opportunità di sperimentare le mie idee di un giornalismo poco politicizzato, concentrato sulle inchieste e che parte dal basso, dalle città”. Infine lo slogan: “Aprite gli ombrelli perché piovono scoop”.