La società di leasing fattura oltre un milione di euro a settimana con finanziamenti che possono essere rischiesti via internet con una procedura rapida. Insorgono politici, sindacati e la Chiesa anglicana: "Soldi che vengono dalle tasce sempre più vuote dei britannici". L'azienda: "Ma i nostri clienti non sono i disoccupati"
I sindacati parlano di “un’economia di avvoltoi”, parlamentari e politici si dicono “preoccupati per le sorti dei nostri connazionali” e persino la Chiesa d’Inghilterra interviene, augurandosi “la fine di questo commercio”. È polemica, nel Regno Unito, dopo che si è venuto a sapere che la società di leasing finanziario online Wonga, nel 2012 ha incamerato profitti per più di un milione di sterline (1,2 milioni di euro) a settimana. Così, in un mercato britannico dei prestiti non bancari che supera la quota dei 2 miliardi di sterline all’anno (2,4 miliardi di euro) e con prestiti medi che vanno dalle 200 alle 400 sterline, Wonga si prende una bella fetta del totale – più della metà – con profitti saliti del 36% in un anno arrivando a quota 62,5 milioni di sterline, un milione di clienti in tutto il Paese e una operatività che si è allargata a Sudafrica, Canada, Polonia e Spagna. La parlamentare laburista Stella Creasy, dopo aver criticato Wonga in passato, ora torna all’attacco: “Il fatto che questa azienda guadagni più di un milione di sterline a settimana, in un business del leasing che ha mostrato in passato grandi storture e grandi malfunzionamenti, deve essere di grande preoccupazione per noi britannici. Anche se la compagnia oggi celebra, io sono molto preoccupata per la mia gente, che sta pagando di tasca propria il prezzo per il profitto di Wonga”.
La società ha un modello di business molto semplice e molto immediato, che parrebbe stimolare la richiesta di prestiti. Le domande vengono inoltrate online, tutto o quasi avviene in ambiente informatico, “ma va detto che noi rigettiamo due terzi delle richieste”, ha tenuto a precisare l’azienda. Il fondatore e amministratore delegato Errol Damelin ha detto che “la mia compagnia agisce in maniera trasparente, noi guadagniamo solo 5 pence (centesimi di sterlina, ndr), per ogni sterlina che prestiamo, non paghiamo dividendi, ma reinvestiamo il profitto per lo sviluppo dell’azienda. Va anche detto che il nostro cliente medio non è una persona che prende gli assegni sociali, ma è una persona che ha bisogno di denaro subito e che è anche integrata, occupata, senza famiglia e digitalmente esperta”. Il tasso di insolvenza dei clienti di Wonga, nel 2012, è stato del 7,4%, “e noi non ci preoccupiamo per questa quantità di gente che non riesce a ripagare il debito”, ha precisato Damelin.
Ma ora, nel Regno Unito, tutto il sistema delle società di leasing finanziario è sotto osservazione. La Competition Commission, una sorta di garante della concorrenza, a giugno ha avviato una inchiesta a 360 gradi sul business dei prestiti privati non bancari, dopo che un altro garante, quello sulle transazioni finanziarie, aveva parlato di “problemi del settore dalle profonde radici”. Sempre nei mesi scorsi, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, seconda autorità della Chiesa anglicana dopo la regina Elisabetta, si era augurato una fine dello strapotere di società come Wonga e aveva annunciato l’intervento della Chiesa con un suo supporto ai “sindacati del credito”, sorta di cooperative senza scopo di lucro che hanno l’obiettivo di offrire prestiti sostenibili. Poi la stampa britannica aveva però scovato un piccolo investimento della principale confessione religiosa inglese proprio in Wonga, mettendo in dubbio la buona fede dell’arcivescovo, ma intanto l’attacco di Welby era servito a gettare cattiva luce sulle società di prestiti. Così ora Citizen Advice, una associazione di volontariato che si occupa di tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori, riprende le parole del responsabile della Chiesa anglicana e dice: “I soldi che vanno a società come Wonga vengono direttamente dalle sempre più vuote tasche dei britannici. E sono la necessità e la disperazione a muovere le loro scelte di chiedere soldi in prestito a tali compagnie”.