Nel mirino del management del gruppo che fa capo a Fabrizio Di Amato è finita la divisione Civil Construction che occupa poco più di 200 persone
E’ stata un’estate calda quella di Maire Tecnimont. La società, che opera nei segmenti delle infrastrutture civili, dell’impiantistica chimica e dell’energia, ha deciso di tagliare drasticamente i posti di lavoro in Italia. Nel mirino del management è finita la divisione Tecnimont Civil Construction per la quale è in attesa in questi giorni la notifica di 130 esuberi su un totale dell’area Tcc di 201 dipendenti.
Un numero elevato se si pensa che complessivamente nel nostro Paese l’azienda, che fino a gennaio aveva mandato a casa un centinaio di lavoratori, impiega circa 2500 persone su un totale di 4.200 stipendiati sparsi su 50 Paesi. Alla base della decisione dei vertici del gruppo che fa capo a Fabrizio Di Amato, c’è un cambio di strategia deciso dal nuovo amministratore delegato di Tcc, Renzo Lunardi, il quale, in sella da pochi mesi, ha scelto di puntare sul segmento progettazione abbandonando i cantieri.
La ristrutturazione del resto era nell’aria: Maire Tecnimont ha infatti appena ceduto progetti importanti come la quota del 20% del Consorzio Cociv per la realizzazione del terzo valico dei Giovi (Linea AC/AV Milano-Genova) e della metropolitana Cityringen di Copenhagen in Danimarca, passata alla Impregilo di Pietro Salini. Ma fa specie vedere che i tagli ai dipendenti arrivino proprio mentre Maire, che di recente ha varato un aumento di capitale da 134,7 milioni, sta festeggiando il ritorno all’utile per 10 milioni nel primo semestre.
Anche in Borsa dove il titolo, negli ultimi due mesi, ha guadagnato il 76 per cento circa. I guadagni a Piazza Affari, del resto, testimoniano come più di un investitore creda che Maire abbia le carte in regola per ripartire. Primo fra tutti il socio arabo Arab Development Estabilishment (Ardeco) che, azionista fino a poco tempo fa con il 5% del capitale, ha raddoppiato la propria partecipazione comprando azioni dalle mani dell’azionista di maggioranza Glv Capital (55,09%), in cui, oltre a Di Amato, hanno investito anche nomi bene della capitale come Giovannino Malagò, numero uno del Coni.
La fiducia degli arabi in Maire non è un fatto isolato nel panorama internazionale: di recente fra i soci di Maire è comparso con una quota del 2,091 per cento il nome della Besix group, il più grande gruppo belga di costruzione di abitazioni, infrastrutture, nonché di progetti ambientali e industriali con 2,1 miliardi di euro di fatturato. Insomma, se da un lato, quello dei dipendenti si ha la sensazione che il ridimensionamento dell’organico sia l’unica via di salvezza per rispondere ad un calo delle commesse, dall’altro, quello della Borsa, si ha l’impressione che le cose possano migliorare.
Del resto il rapporto del gruppo industriale Maire con lo sfavillante mondo della finanza, sin dai tempi dell’acquisizione di Fiat engineering nel lontano 2004, è da sempre contrastato (all’epoca l’acquisizione da 115 milioni venne finanziata da Di Amato per circa due terzi a debito). La società, che solo un anno dopo l’affare Fiat Engineering, inglobò anche Tecnimont comprandola dal socio Edison (che si era intanto sostituito nel 2005 a Fiat) con un esborso da 180 milioni, è poi cresciuta rapidamente preparandosi allo sbarco in Borsa del 2007.
Operazione che fruttò a Di Amato 180 milioni di euro. Cedole escluse. Dividendi che Maire ha sempre staccato anche quando ha iniziato a navigare in acque agitate. Fra denari distribuiti ai soci e repentini cambi ai vertici, con il titolo in picchiata (da inizio 2011 ha ceduto quasi il 90%), Maire ha anche accusato il colpo della crisi, registrando un pesante rosso (207,6 milioni di perdite) e procedendo al riscadenziamento al 2017 di 307 milioni di debito a medio-lungo termine grazie a un nuovo accordo con Intesa SanPaolo, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena e Santander.
Così con gli anni il gruppo, da promettente azienda di engineering e dell’impiantistica per la chimica con naturale vocazione a crescere all’estero, si è trasformato in una possibile preda per imprese dello stesso settore come la Condotte della famiglia di costruttori romani Bruno o Recchi, la società dell’attuale presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi. Quanto basta, insomma, ad un mercato isterico alla ricerca di titoli su cui speculare. Ma non certo ai dipendenti che vorrebbero poter discutere con il management del futuro di tanti posti di lavoro.