Catania, Palazzo di Giustizia: non proprio, nei decenni passati, il pool antimafia di Falcone e Borsellino. Però da qualche tempo c’è un nuovo Procuratore, non molto amato dai notabili catanesi…

Dovete immaginare il vostro corrispondente che marcia verso il Palazzo di giustizia nel pieno dell’estate catanese, asciugandosi di tanto in tanto il sudore col fazzoletto e sbuffando e maledicendo Catania e chi l’ha inventata.
Trentatrè anni fa, nella Catania di quei tempi, saremmo stati davanti al carcere, a piazza Lanza, a decifrare le grida dei ragazzini colpevoli, arrampicati sul tetto, e a leggere i bigliettini che qualcuno di loro buttava giù nella speranza che a qualcuno importasse qualcosa della sua vita. “Non putemo cchiù stari”. “C’è troppo cavuru”, “Chi è iustizia chista?”.
Le gabbie del carcere, in realtà, erano orribili cose, divorate dall’afa, disumane.
Tramezzi sottilissimi le dividevano, ma solo simbolicamente, dal carcere degli adulti; in cui regnavano i mafiosi. Picchiati dai poliziotti, sfruttati dai boss della mafia, non di rado stuprati, i figli della Catania povera pagavano a peso doppio la colpa di essere nati tali.

D’estate si ribellavano, complice il caldo inumano. Salivano sul tetto del carcere e urlavano pietà. Il mio giornale, il Giornale del Sud di Giuseppe Fava, era l’unico che gli desse ascolto, che pubblicasse le loro miserevoli proteste; perciò dalla gente perbene venivamo giustamente definiti “il giornale della malavita”. Dai loro scranni di giudici, virtuosamente severi, i magistrati irrogavano (reduci dalle ville dei costruttori mafiosi) pene ai confini del codice, “esemplari”.
Ne ritrovavo parecchi – dei ragazzini, non dei giudici – nei miei giri di cronaca fra gli scippatori. Sovente, invece delle quattro righe di brevi, meritavano una pagina intera (completa di foto sorridente della prima comunione o di segnaletica della questura), quando li ritrovavano a faccia in giù in un fosso o a braccia larghe per terra in qualche sciara. La mafia teneva l’ordine, insieme all’ordine costituito.

Rimuginando questi pensieri, eccoci alla scalinata del Palazzo. “Desideravo vedere il dottor Salvi”. Salvi – di primo acchitto – è un “continentale”, un signore cortese che si guarda attorno con scetticismo e attenzione.
Non fa vita di mondo, non frequenta salotti, non ha preso casa; dorme in caserma, vive al suo tavolo di lavoro, ogni tanto – un paio di mesi – ritorna a casa sua, che è lontana. Ha rischiato la pelle – terrorismo e poi mafia – per qualche decina di anni, perciò c’è abituato. Ai veleni “civili” un po’ meno; sembra – non che ne nomini – che lo stupiscano ancora.
La cosa di cui parla per prima – a sorpresa – sono proprio le celle dei carcerati. “Non si poteva andare avanti così. Non è civile”. E mostra con orgoglio le foto delle celle nuove, con tavoli, letti moderni e tutto quanto. “Se vogliono vendere il carcere, affari loro. Ma finché carcere resta, qua si ospitano esseri umani. E’ già abbastanza afflittiva la pena”.

A questo punto toccherebbe chiedere al Procuratore come vanno le cose a Palazzo, parlare del suo lavoro. Invece il discorso è finito sul lavoro mio.
“L’antimafia a Catania ha fatto delle belle cose. Ma siete troppo divisi. Un bel tessuto di organizzazioni, certo, ma ognuna per conto suo…”.
Incassiamo, e cambiamo discorso. “Il giudice Scidà soleva dire – osserviamo – che la giustizia negata colpisce soprattutto i poveri…”.
“E noi cerchiamo di farla funzionare. Abbiamo informatizzato il possibile, usando pure i fondi europei, abbiamo riorganizzato i carichi pendenti. Effettività della pena, procedure veloci e quindi carcere solo quando c’è la condanna, niente detenzioni brevi. Prima erano circa mille su su duemila, ora le abbiamo ridotte a centoventotto. Abbiamo drasticamente abbassato gli ingressi in carcere…”.
“Vuoi vedere che non siamo solo noi il giornale della malavita?” pensiamo, ma lui già sta proseguendo:
“Ma anche i reati cosiddetti minori spesso non sono affatto tali. Molti furti di luce, ad esempio, non sono sempre commessi per necessità”.
E la lotta alla mafia?
“Facciamo la nostra parte”.
(Questo s’è visto: in una quindicina di mesi sono stati acchiappati mafiosi, finalmente, a plotoni e reggimenti: anche se bisogna essere molto attenti per saperlo perché la stampa perbene, compresa la più repubblicana e democratica, non sempre ne dà notizia adeguata). Pensando alla stampa, comunque, al vostro corrispondente viene subito in bocca il suo chiodo fisso:
E… uhm… le indagini su… Ciancio?
“Continuano. Stanno continuando”.
“La lotta alla mafia, d’altra parte – prosegue, dopo una pausa, il procuratore – non è affatto sulla difensiva. Anzi. Se n’è fatta di strada, in tutti questi anni. L’ultimo è Messina Denaro, ma è circondato. Non sono stati sacrifici inutili, niente affatto. Stiamo vincendo noi, nonostante tutto. Mafiosi, killer, boss, anche imprenditori… ne abbiamo presi parecchi. No, non è stato inutile. E…”

Entra un ufficiale della Finanza, dice qualcosa in fretta ed è già uscito.
“Certo, non siamo molti (un trenta-quaranta in meno di Palermo) ma ci diamo da fare”.
Abbiamo le solite domande stupide già pronte nel taccuino (”Cosa spinge un magistrato a fare questo mestiere?” e roba del genere) e anche qualche domanda cattiva su qualche collega, ma ce ne asteniamo, tanto o sono inutili – sui colleghi non risponderebbe – o sono banali. In realtà abbiamo poco da chiedere, siamo qui sostanzialmente per accertarci coi nostri occhi che davvero sia in carne e ossa qui, un giudice estraneo ai notabili, qui a Catania.

Notevole il fatto che, mentre snocciola distrattamente e un po’ annoiato le cifre dei mafiosi e boss messi dentro, s’infervori, abbastanza orgoglioso, quando parla di burocrazia. E’ riuscito in pochissimi mesi a ottenere ciò per cui Scidà battagliò per vent’anni, porre fine all’andazzo per cui gli uffici giudiziari, affittati a peso d’oro da questo o quel costruttore, erano il monumento in cemento della malagiustizia. “Utilizzeremo, come da protocollo con la regione e il comune, l’ex ospedale Ascol-Tomaselli come nuova sede degli uffici”.
“Si potranno dismettere – e qui davvero esultano le vecchie ossa – i locali dei privati, gravanti con notevoli costi sull’amministrazione pubblica…”.

E questo è tutto, per ora. Ce ne torniamo via lentamente, con nel taccuino questa intervista sicuramente inutile, giacché non contiene scoop (e tantomeno scoop concordati), nulla che i colleghi ci possano invidiare. Una storia semplice: dentro il palazzo di giustizia c’è un giudice, e questo giudice ar­resta i mafiosi (senza emozionarsi troppo), indaga sui loro partner, mette ordine nei suoi vecchi uffici, da’ un briciolo di speranza a quelli che finora erano venuti qui per subire ingiustizia e – con burocratica noncuranza – li tratta da esseri umani.
Tutto questo è banale, si capisce, e il vostro corrispondente, che si vanta di essere un giornalista incallito, si sente un tantino sprecato a doversi occupare di cose così banali. Che rischiano, se continua l’andazzo, di diventare – fra una decina d’anni – addirittura normali.
“Ma davvero, amico mio – pensiamo, parlando da soli o al nulla come usano i vecchi – davvero abbiamo lottato tanto per arrivare a questo? Alla banalità, a una  Catania normale, una città come tante?”
“E per che altro? Lei che si aspettava, i rulli di tamburo e le bandiere? La giustizia, caro mio, non dev’essere eroica ma banale. La normale giustizia, semplice come l’acqua, che spetta a tutti”.
E i due se ne tornano a casa, discutendo animatamente di ciò che hanno visto.

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