La guerra le sta portando via 14 anni di lavoro. Gli incassi si assottigliano, le boutique, in Italia come all’estero, chiudono: a Roma le ha ridotte di un terzo. “Trovo la forza di andare avanti nella speranza che ripongono in me i miei connazionali”. Mona Mohanna, stilista libanese che dal 1989 passa la sua vita tra Italia e Medio Oriente, ha la voce rotta mentre racconta le conseguenze di due anni di guerra per la sua attività. È tornata il 4 settembre da un viaggio nel suo Libano, a trovare gli otto sarti (tre uomini e cinque donne) che continuano a lavorare con lei, nonostante tutto. “Beirut sta piangendo. È tornata la stagione delle autobombe”.
Il conflitto in Siria sta cancellando i luoghi dove andava a cercare le stoffe con cui confeziona gli abiti che vende in Italia, in Svizzera, in Grecia. Per anni ha viaggiato nei suk di tutta l’area a ricerca di materiali unici da far apprezzare al gusto occidentale. Quando al telegiornale, ormai rientrata a Milano dopo aver trascorso l’estate nella sua terra, ha saputo che le brigate qaediste di Jabat al Nusra hanno preso Malula, un villaggio cristiano a un’ora da Damasco, si è disperata. Qui ci sono delle donne che da 12 anni ricamano per lei veli e abiti con una tecnica antichissima, di origine ottomana. Malula, la “città dove ancora s’insegna l’aramaico, dove per secoli cristiani e musulmani hanno vissuto in pace”, ricorda Mona Mohanna, perderà la sua principale ricchezza.
Lo stesso è accaduto ad Aleppo, a una famiglia cristiana produttori di seta che la stilista ha conosciuto dieci anni fa in un suk nella città vecchia. L’artigiano, un uomo di 92 anni, confeziona una seta pregiatissima con dei telai tradizionali, che risalgono a 80 anni fa. Da 14 mesi Mona Mohanna non riesce più a ricevere nulla. “Questa guerra si sta portando via un pezzo di cultura e di tradizioni della Siria – dice – Nessuno sa chi sopravviverà, se qualcuno sarà ancora in grado di tramandare certe conoscenze”. Aleppo era anche la città del laboratorio principale per le stoffe e la confezione di Mona Mohanna. “Dall’inizio del 2012 non ricevo più carichi e non ho nessuna notizia su tanti artigiani”. Fino al 2006, il laboratorio era a Beirut. A costringerlo oltre i confini siriani anche in quell’occasione furono i venti di guerra. Dopo l’attentato all’ex premier Rafiq Hariri del 14 febbraio 2005 la vita dei siriani a Beirut era diventata impossibile: l’opinione pubblica aveva accusato il governo siriano di essere il mandate dell’omicidio.
Mona Mohanna dava anche da lavorare ad alcune delle 300 donne dei campi profughi libanesi nel Libano a Beirut, Sidone, Tiro, Burj-al-Shamali nel nord. Le aveva conosciute attraverso Adele Manzi, cofondatrice dell’associazione Najdeh (“soccorso”, in arabo). Dal 1977 l’associazione insegna le antiche tecniche del ricamo alle donne palestinesi dei campi in Libano. Facevano ricami che Mona Mohanna utilizzava per i suoi vestiti: “Assopace e Rete Radié Resch, due associazioni con progetti umanitari in Medio Oriente, hanno sempre aiutato a divulgare questi prodotti – spiega – Adele Manzi è scomparsa lo scorso anno. E da quando non c’è più lei ed è arrivata la guerra, i laboratori hanno cominciato ad accumulare debiti, oggi arrivati a 100mila dollari. Troppo per poter ricominciare”.
Dal 20 al 22 settembre Mona Mohanna esporrà i suoi capi a So critical so fashion, fiera della moda critica e responsabile di Milano. “All’inizio non volevo partecipare – racconta – ma poi ho pensato che qualunque visibilità, qualunque occasione di ottenere nuove commissioni e far conoscere le mie creazioni sara un occasione per continuare a fare lavorare la mia gente”.