Destinazione Italia, la bozza di piano per attirare gli investimenti esteri e favorire la competitività delle imprese italiane, approvato ieri dal Consiglio dei Ministri, è una sorta di libro dei sogni. Che muove però da una motivazione di fondo semplice e incontestabile: la maggiore attrattività del Paese è conditio sine qua non perché il nostro tessuto economico-produttivo aumenti la propria competitività.
“Quello dell’attrazione di investimenti esteri – mi disse Romano Prodi un anno e mezzo fa in una lunga intervista – è un problema serio, fondamentale tra i nodi che una politica industriale deve affrontare, anche perché ritengo che nessun sistema industriale si regga senza un altissimo livello di investimenti stranieri…noi abbiamo investitori che comprano aziende, al fine di comprare un marchio o una quota di mercato, ma nessun investimento greenfield (che parta cioè da zero; ndr), di cui avremmo tanto bisogno”.
Parole sacrosante, ma di investimenti esteri si sente parlare da almeno 20 anni. E fino ad ora tutte le iniziative e le varie ricette messe in campo per tentare di catalizzare una fetta più consistente rispetto all’1,6 per cento dello stock mondiale, si sono rivelate un fallimento. Per via di radicati fattori “ambientali”, particolarmente respingenti verso chi abbia desiderio di fare affari in Italia e che ci condannano a stare nelle retrovie, assieme a paesi come lo Zambia e la Colombia, delle classifiche sulla competitività e attrattività internazionale.
Paghiamo poi l’inadeguatezza degli strumenti esistenti, Invitalia (ex Sviluppo Italia) per prima, di cui per giunta la politica ha fatto disinvolto uso come assumifici, più che come leve di sviluppo economico. Ma sul nostro “magnetismo” pesa anche un ritardo culturale sul tema, visto che ogni volta che si parla di investimenti esteri si pensa ad “invasioni” di stranieri, che fanno razzia di marchi storici, come è capitato anche recentemente con Loro Piana. Dimenticando peraltro di considerare che gli investimenti esteri (IDE), con particolare riferimento a quelli tesi ad impiantare nuove attività produttive, costituiscono uno straordinario volano per la crescita: una iniezione di internazionalizzazione dei processi produttivi, componente essenziale per il recupero della competitività e la ristrutturazione del sistema produttivo.
Basti pensare che, come ha evidenziato una recente analisi elaborata dal Comitato Investitori Esteri di Confindustria, ogni 10 miliardi addizionali di IDE si generano 2,5 miliardi all’anno di valore aggiunto diretto, 1 miliardo di valore aggiunto sull’indotto ed addirittura uno 0,23% di crescita strutturale del PIL. Quindi riuscire ad attrarre 60 miliardi di dollari di IDE, come ha fatto la Francia l’anno scorso, significherebbe per l’Italia guadagnare 1 punto di PIL.
In tutto ciò è importante che nel documento esplicativo di Destinazione Italia si sia confermato un concetto chiave: per facilitare gli investitori esteri e gli imprenditori in generale servono, molto più degli incentivi finanziari, certezza del diritto, del fisco e soprattutto dei tempi nelle autorizzazioni. Senza queste pre-condizioni è difficile anche solo immaginare che gli IDE in ingresso in Italia, scesi dai 24,7 miliardi di euro del 2011 ai 12,5 del 2011 fino ai presumibili 6-7 miliardi di quest’anno, possano riprendere quota.
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