Se non fosse il mercato a chiedere vitigni internazionali sarebbe logico lasciar stare e puntare sui nostri autoctoni. Ma tra i tanti che perseverano senza risultati degni di nota, qualcuno fa centro. Come il Pinot di Elisabetta Dalzocchio una delle espressioni italiane del vitigno più vicina alla Borgogna.
Azienda bio (ma questo dice poco), non interventista in vigna e in cantina (questo dice molto di più sul loro vino), Dalzocchio produce questa bella e austera versione in Trentino, puntando tutto sulla naturalità: la fermentazione avviene spontaneamente – e in parte effettuata a contatto con i raspi – il vino invecchiato in fusti di rovere da 228 litri per 18 mesi, la solforosa a livelli minimi.
Al naso è ricco e complesso: tutto giocato su note di bosco ed erbacee. In bocca è elegante, dritto e snello, senza essere mai facile, con una chiusura mandorlata molto piacevole e qualche nota terziaria che esploderà negli anni. La beva è indiscutibile come ci si aspetta da un vino del genere, intenso ma mai difficile o stucchevole.
Il consiglio è ovviamente aspettarlo dimenticandoselo in cantina. La bottiglia più vecchia di Dalzocchio che ho avuto modo di bere era un 2006. E ne valeva doppiamente la pena.