Se dico ad Agorà che Berlusconi è “un vecchio sporcaccione” vengo bollato da tutti i partecipanti alla trasmissione – Fabrizio Rondolino compreso (da che pulpito!) – come “maleducato”. Quando poi compare sul megaschermo del set televisivo una erinni de “l’esercito di Silvio”, con tanto di bava alla bocca, ad abbaiarmi contro che “non mi toccherebbe neanche con un bastone”, mi pare più che legittimo (e signorile) precisarle la reciprocità di tale sentimento.
Eppure – a quel punto – una giornalista del Corriere – anch’essa sul sovreccitato trucido e con cui sto purtroppo condividendo la comparsata mattutina – si sente in diritto di apostrofarmi “cafone”. Il giorno dopo i ragazzacci de La Zanzara mi danno su la voce se commento il lascito testamentario in cassetta video dell’ex Cavaliere nei termini di “terrorizzante”. Come se lo spettacolo della morte in diretta non faccia ghiacciare il sangue dall’orrore. Un po’ come nella trasposizione cinematografica viscontea di “Morte a Venezia”, in cui un Dirk Bogare pittato grottescamente alla ricerca dell’improbabile recupero di seduttività (vi ricorda qualcuno?) si accascia sulla sdraio ed esala l’ultimo respiro. Difatti l’ultimo rantolo berlusconiano via etere è una serie sconnessa di parole “tormentone”, quale sintesi subliminale della sua intera vicenda politica: toghe rosse… sinistra dell’odio… invidia…
Questo per dire che dal momento in cui siamo giunti al lumicino della Seconda Repubblica e ci troviamo ad affrontare la conseguente transizione, forse potremmo osare il tentativo di riappropriarci del reale significato delle parole, anche nelle sedi della comunicazione radiotelevisiva. Superando i connessi manicheismi partigiani del “o di qua o di là”. Ossia, ricreare quel momento magico di verità a tutto campo che caratterizzò la precedente transizione – quella dalla Prima alla Seconda, di Repubblica – in cui sembrò normale chiamare per nome e cognome corrotti e corruttori. A prescindere dalle appartenenze di campo. Da Craxi a Greganti, da De Lorenzo a Forlani.
Un momento di verità che – volendolo – si potrebbe fare scoccare una seconda volta, con tutti i suoi effetti liberatorii. E allora ci confesseremmo la tragica verità che questo ventennio ha coinciso con la corsa al peggio nella selezione delle classi dirigenti (oltre ad aver legittimato un’etica pubblica che funziona al contrario, in quanto pura apologia dell’immoralità, e imposto criteri di apprezzabilità sociale che oscillano tra il culto dell’incivile e l’apoteosi dell’ignoranza).
Se ci liberassimo dal vincolo dell’indicibile per ragioni di appartenenza/bottega, non avremmo difficoltà ad ammettere che l’appello ai tecnici seleziona pretenziosi banalizzatori di incompetenze paludate alla Mario Monti; ma anche che Guglielmo Epifani tirava a campare nel sindacato e fa lo stesso nel PD; come che Matteo Renzi è un vecchio blairista senza aver ancora compiuto quarant’anni e che la base di sinistra dei Democratici non intende votarlo; non meno che Casaleggio e Grillo sono degli apprendisti stregoni, i quali gabellano l’internetcentrismo e la “potenza della rete” per ciò che non possono essere: un luogo di costruzione dell’intelligenza collettiva, quando – al massimo – le nuove tecnologie di comunicazione (indossabili) servono per mobilitare. Difatti si è visto il cortocircuito elaborativo di M5S dopo il successo elettorale.
Con l’ulteriore corollario che tutti i presunti salvatori della Patria per i canonici quindici minuti (gli Ingoia, i Gianfranco Fini, i Di Pietro, i Bersani, i Tremonti. Per arrivare alle ultime entrate sul giovanile, tipo Serracchiani, Pippi Civati, giovani turchi vari, Meloni strabuzzanti e altra verdura) hanno la consistenza politica della cartavelina. Insomma, se tornassimo a dire pane al pane, ammetteremmo che i differenti “supereroi carismatici”, che tuttora le diverse bande di tifosi fanatizzati osannano religiosamente, sono – in realtà – soltanto dei millantatori che in tasca non hanno alcuna soluzione ai problemi generali.
Ed è proprio per questo che il Paese continua a brancolare nelle tenebre della crisi. Tanto che Napolitano e il suo figlioccio Letta hanno pieno aggio di portare a termine la grande normalizzazione che richiuderà il cerchio illusionistico sulla nascente Terza Repubblica: l’ennesima espropriazione di verità a mezzo mastodontiche flebo di anestetico. E non ci inganni l’aria dimessa e falsamente tranquillizzante del giovane premier. Lui è tutt’altro che giocondo, come – del resto – ha voluto precisare. È ben altro, secondo la vera natura delle “madonnine infilzate”, delle “acque chete”.