La parte del giovane non la sapeva fare neppure al liceo, per cui quando Enrico Letta sfodera uscite sbarazzine come quella sul Carosello della Nutella (“Io non c’ho scritto Jo Condor in testa, l’ho imparato da bambino”) i suoi avversari dovrebbero preoccuparsi. Non è un diversivo, ma il suo modo democristiano di annunciare che il gioco si fa duro. Preceduta da espressioni insolitamente colorite (“non siamo i parafulmini”, “non siamo il punching ball”), la frase così prosegue: “Al momento opportuno giocheremo all’attacco”.
La chiave è “al momento opportuno”, che non segnala l’indefinito rinvio ma il lessico di un navigatore che da trent’anni calcola scientificamente le rotte: a 27 anni capo della segreteria di Nino Andreatta alla Farnesina, a 31 vicesegretario del Ppi, a 32 ministro (il più giovane della storia repubblicana), a 39 sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Romano Prodi. Letta ha appena compiuto 47 anni e sta già organizzando il suo percorso dei 50 e 60 anni, mentre altri cercano di capire a che ora saranno le prossime elezioni politiche. Il Letta bifronte è, sul lato A, il vaso di coccio schiacciato tra lo zio Gianni (con annesso il dante causa B.) e il Quirinale, tra le contumelie di Renato Brunetta e la solidarietà pelosa di Matteo Renzi; sul lato B (propriamente detto dopo l’inopinato atterraggio a palazzo Chigi) è semplicemente un professionista.
Gli italiani vedono un Mario Monti che entra in politica a 70 anni con perizia da torneo amatoriale, abbocca a tutte le finte di avversari e alleati e si sfracella in sei mesi. E vedono il premier che ne ha preso il posto ugualmente glaciale, non per supponenza ma sulla scorta di un training politico iniziato al liceo classico “Galileo Galilei” di Pisa come leader di Alternativa Democratica, formazione di emanazione democristiana, guidata prima di lui da Stefano Ceccanti (poi costituzionalista e senatore veltroniano). Chi ha assistito ai suoi primi passi politici lo ricorda già democristianamente controllatissimo. Eppure Letta alla scuola democristiana ha imparato che non mantieni il potere per 50 anni solo con compromessi e passi indietro: c’è anche il momento in cui devi tirare una linea. In una parola, rischiare. Lui lo ha già fatto, schierandosi contro Walter Veltroni alle primarie Pd del 2007. Ammise che una disfatta poteva troncare la sua carriera, si beccò i rimbrotti di un altro suo riferimento forte come Giuliano Amato, fervente veltroniano, e fece una campagna sottovoce. L’attacco più duro contro Rosi Bindi, che lo insolentiva da mane a sera fu: “Noto in lei alcune punte di spigolosità”. Prese l’11 per cento, ma due anni dopo era vicesegretario con Pier Luigi Bersani.
Sbaglierebbero i suoi avversari a dimenticare che nel suo Pantheon di formazione c’è lo zio Gianni (amico di tutti, mediatore sublime) ma anche e soprattutto Andreatta, economista di riferimento di Aldo Moro e maestro di Prodi, che si scontrava con tutti perché anteponeva i principi alla tattica, e pagò la sua inflessibilità sul crack dell’Ambrosiano di Roberto Calvi con dieci anni di esilio dal governo. È stato proprio il premier, due mesi fa, a elogiare l’inclinazione del maestro ad accettare la sconfitta in nome dei valori. Lo ha fatto dialogando in pubblico con Giovanni Bazoli, amico di Andreatta che lo trasformò in banchiere, chiamando familiarmente “Nanni” l’anziano professore. Il Letta bifronte dà del tu al potere, frequenta i salotti della finanza, è stato vicepresidente dell’Aspen Institute, non ha mai disdegnato i finanziamenti elettorali dagli industriali. Poi però va da Bruno Vespa, lunedì scorso, e, sollecitato all’esecrazione per i magistrati che distruggono l’industria, parla come Maurizio Landini. Spiega che la chiusura degli stabilimenti Riva Acciai nel nord Italia è “una rappresaglia che l’azienda ha messo in campo rispetto all’azione della magistratura” perché “il sequestro dei conti correnti non impedisce l’attività”.
Due sere fa la sua risposta al video messaggio di B. è stata asciutta: “Siamo in uno stato di diritto, non ci sono persecuzioni e rispettiamo l’autonomia della giustizia e il lavoro dei magistrati”. Agli antipodi rispetto al suo grande elettore, il presidente Giorgio Napolitano, che intima ai magistrati “assoluta imparzialità e senso della misura e del limite”. È come se la scuola democristiana confermasse la sua superiorità su quella comunista nell’arte di piegarsi senza spezzarsi.
il Fatto Quotidiano, 21 Settembre 2013