“Pesava ogni frase fino al milligrammo, non gli scappava nulla che non intendesse dire, e ciò che diceva rientrava sempre nella meccanica di una utilità”, così scriveva Oriana Fallaci di Henry Kissinger, uno degli uomini più influenti sulla scena politica del secolo scorso. Proprio a lui Paolo Fontana deve la sua passione per la politica internazionale. “La mia tesi in storia contemporanea è un’analisi della ‘realpolitik’ di Kissinger nelle relazioni fra Stati Uniti e Cina tra il 1968 e il 1971. Da lì, quello che era interesse per la storia diventò prima passione per la diplomazia e poi desiderio di lavorare nel posto che meglio rappresenta la politica internazionale”.
Oggi, a 37 anni, Fontana è uno dei 130 italiani nello staff delle Nazioni unite, a cui se ne aggiungono circa 70 che lavorano per la missione italiana presso l’Onu. Negli uffici di Manhattan arrivò per la prima volta come stagista, al termine di un master all’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano. “Lavorai per sei mesi nell’ufficio che assiste il presidente dell’Assemblea generale: un’esperienza fantastica, tanto da indurmi a spendere i cinque anni successivi ad acquisire le professionalità di cui avevo bisogno per tornare all’Onu”. In quegli anni Fontana arricchisce il suo curriculum lavorando come consulente di politica estera presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia, giornalista nella redazione esteri di un quotidiano e ricercatore presso il Landau network-centro Volta, un piccolo centro studi che sta facendo un lavoro importante nel campo del disarmo nucleare e batteriologico.
“Grazie a queste esperienze, e a un po’ di fortuna, nel 2007 fui selezionato come Junior professional officer (Jpo) presso il Peacebuilding support office delle Nazioni unite a New York, una struttura appena creata per affiancare la Peacebuilding commission, un organismo intergovernativo che assiste Paesi in situazioni post-conflitto”. Il termine ‘peacebuilding’ è apparso negli anni ‘70 con il lavoro di Johan Galtung, che proponeva la creazione di strutture di peacebuilding per promuovere la pace sostenibile, attraverso la risoluzione dei problemi alla radice dei conflitti più violenti e dando sostegno politico e finanziario alle capacità indigene di gestire la pace. Da allora, con peacebuilding si intende un insieme di attività multidimensionali, che vanno dal disarmo delle fazioni guerriere, alla ricostruzione delle istituzioni politiche, economiche, giudiziarie e civili dei Paesi usciti da guerre. La Peacebuilding commission è composta da 31 Stati membri, i cui rappresentanti si riuniscono per discutere strategie, processi e attività finalizzate a costruire la pace nel lungo periodo, con l’obiettivo primario di evitare il ritorno alle armi.
“Il mio lavoro consiste nel consigliare il presidente della Commissione sulle varie tematiche da trattare e nel tenere relazioni con i Paesi membri”, spiega Paolo Fontana. Un episodio che ricorda con piacere risale allo scorso anno, quando lui e il suo diretto superiore furono decisivi per chiudere la negoziazione del comunicato finale di un incontro tra ministri, suggerendo i compromessi necessari a far adottare un documento condiviso a Paesi, che partivano da posizioni molto diverse. “Le consultazioni riservate sono esperienze eccezionali per un appassionato di diplomazia, specialmente quando arrivi a vedere qualche risultato uscire dalla lenta e macchinosa burocrazia delle Nazioni unite”.
All’Onu, spiega Fontana, non si cambia il mondo da un giorno all’altro, ma si muovono piccoli passi nella direzione giusta con tanta pazienza e duro lavoro. “Nonostante ciò, è una professione molto stimolante e il mio consiglio per chi volesse lavorare alle Nazioni Unite è di studiare molto e bene, perché servono tanto una solida cultura generalista in politica internazionale, quanto delle conoscenze più tecniche, incluse le lingue straniere. Poi, non bisogna demordere, perché è difficile entrare al primo tentativo”. Non sarebbe comunque tempo perso, perché si tratta di una formazione specifica, ma non esclusiva. “Il mio profilo è di analista politico e di diplomatico. Sono competenze richieste non solo nel settore pubblico, ma anche negli uffici per le relazioni esterne, istituzionali o internazionali di grandi enti privati, come le banche di affari. Sarebbe una sfida interessante spostarsi nel settore privato”.
Sarebbe sicuramente un’opportunità per tornare in Italia, magari vicino alla sua Cernobbio, in provincia di Como. “Insieme al contratto, l’Onu fa firmare una dichiarazione con cui ci si impegna a non servire il proprio Paese, ma tutti i Paesi. Però, è difficile mettere da parte l’amore per l’Italia e oggi fa male vedere la drammaticità della situazione economica e sociale, soprattutto per i giovani. Se il mondo politico abbandonasse gli interessi di bottega e ricominciasse a dar fiducia agli italiani, sarei ben felice di rientrare per partecipare alla ricostruzione del mio Paese”.