Alla fine del Settecento, in un testo straordinario, La lettera sulla scultura di Francis Hemsterhuis – intellettuale olandese di grande spessore, mai cattedratico ma solo estetologo vocazionale – viene formulata una delle ipotesi più suggestive sulla bellezza che diviene il risultato di una correlazione inversamente proporzionale fra il minimo lasso di tempo a disposizione per contestualizzare l’oggetto della visione, l’immediatezza della percezione istantanea, e il maggior numero di idee che tale impressione percettologica riesce a procurare. Una bellezza che si può attingere nell’immediatezza della visione in tutta la sua compiutezza ma che con altrettanta facilità può deperire fino ad estinguersi completamente. Il mito della bellezza è necessariamente scandito dalla caducità?
In un frammento di grande spessore speculativo, Caducità di Sigmund Freud, vi è un interessante approfondimento-dilatazione di tale tematica con ulteriori implicazioni e svolgimenti. Bellezza e caducità sono dunque indissolubilmente connesse? Walter Benjamin offre un ulteriore spunto alla discussione. Nella geniale riscrittura del grande romanzo goethiano, Le affinità elettive, viene prospettata la tesi seguente: la bellezza per esprimersi non può privare del contributo dell’apparenza, ma con altrettanta radicalità non può essere confusa con l’apparenza; tra le due dimensioni deve permanere uno scarto intrascendibile. Vi è, in ultima analisi, un fondamento della bellezza che non può essere disvelato, che deve permanere, che non può essere confuso con l’apparenza.
Esistono in tal modo due dimensioni della bellezza: quella dell’Elena di Goethe, ossia forme di bellezza abbaglianti, di una fascinazione immediatamente irresistibile; una seconda dimensione è quella espressa dal paradigma dell’Ottilia delle Affinità elettive, una dei quattro protagonisti del grande romanzo goethiano, che ricorda – e in questo caso Benjamin riesce a fornire una genealogia plausibile e convincente che nessun germanista è riuscito mai a interpretare – che ricorda, dal punto di vista semantico, la Patrona dei malati della vista, dell’Odilienberg, nella Foresta nera, la patrona di coloro che non possono essere aggrediti da una bellezza travolgente che si confonde con l’apparenza.
Che cosa ne pensano in proposito due donne molto belle che ho interpellato, Rénée Sylvie Lubamba, protagonista del successo ideato e realizzato da Chiambretti, e Manuela Torres, modella e attrice contemporanea di cui si parla molto? Che cosa ne pensano due protagoniste in prima persona del mito della bellezza, di queste due dimensioni, tra loro incompatibili, della bellezza? Pensano alla caducità?
Le risposte sono state inequivoche: non si pensa, si vive. La bellezza non può diventare oggetto di una riflessione ma è solo un’avventura-condizione vissuta su cui è del tutto irrilevante soffermarsi a riflettere. La caducità è una condizione altrettanto intrascendibile e non può essere né elusa né trascesa dal pensiero. La fascinazione della bellezza e quella della caducità si rafforzano reciprocamente, l’intensità della bellezza è direttamente proporzionale al suo ineluttabile tramonto, e l’esperienza del declino altrettanto proporzionale al fascino abbagliante dell’immediatezza percettologica del bello. Forse il languore degli sguardi di modelle o di alcune attrici sta a rappresentare degnamente questa reciprocità con cui è necessario abituarsi a convivere.