Cultura

“La moglie”, il romanzo del “Sessantotto” indiano raccontato da Jhumpa Lahiri

Appena uscito in Italia il romanzo della scrittrice premio Pulitzer che parte dalla storia vera di due fratelli, militanti filomaoisti, fucilati in strada a Calcutta durante la violentissima repressione del movimento rivoluzionario

di Valeria Gandus

Come la gran parte delle donne indiane, Jhumpa Lahiri appare molto più giovane dei suoi 46 anni, ma lo era davvero, 16 anni fa, quando nella sua testa prese corpo l’idea del romanzo che esce in libreria solo oggi: La moglie (Guanda)Nel frattempo non è rimasta con la penna in mano, anzi, ha scritto tre romanzi di grande successo internazionale (L’interprete dei malanni, L’omonimo e Una nuova terra, tutti pubblicati in Italia da Guanda) che le hanno valso un Pulitzer e altri importanti premi.

Ma l’idea primigenia, o meglio l’immagine dalla quale avrebbe preso corpo il romanzo, era lì, impressa nella sua mente da allora: due uomini poco più che ragazzi, due fratelli, fucilati per strada, davanti agli abitanti di un quartiere. Accadeva a Calcutta, alla fine degli anni Sessanta, durante la violentissima repressione del movimento rivoluzionario filo maoista – nel quale i due giovani militavano – e che infiammava il Bengala con sanguinosi attentati.

Il padre di Jhumpa Lahiri aveva assistito di persona a quella scena e molti anni dopo, quando aveva da tempo lasciato Calcutta per Londra e poi New York, l’aveva descritta alla figlia. “Quel periodo, una sorta di Sessantotto indiano, è stato molto indagato e raccontato nel nostro Paese, dunque non intendevo scrivere un romanzo storico” spiega Lahiri in perfetto italiano, una lingua che adora al punto da essersi trasferita a Roma, con famiglia al seguito, per perfezionarne lo studio. “Mi interessava, invece, la storia di quei giovani: immaginare com’era la loro vita e come sarebbe potuta essere se non fossero stati uccisi”.

Così, da due fratelli quasi coetanei, fra loro legatissimi e molto somiglianti nell’aspetto ma non nel carattere, prende l’avvio il romanzo. Ma solo uno dei due si butterà a capofitto nell’avventura rivoluzionaria, e solo lui sarà protagonista di quella scena, in quello stesso quartiere dove un tempo durante il monsone piccoli stagni diventavano laghi e folte crescevano le mangrovie. L’altro emigrerà per vivere la vita che nella realtà hanno vissuto i tanti giovani e brillanti studenti indiani che in quegli anni si trasferirono negli Stati Uniti: un dottorato di ricerca, una cattedra universitaria, una casa nei sobborghi dove una moglie e dei figli aspettano a sera il capofamiglia.

Solo che Gauri, la moglie di Subhash, non è come le altre mogli. Né Bela è come le altre figlie. La morte di Udayan, il fratello tanto amato e tanto diverso, segnerà per sempre la vita di Subhash e della sua famiglia. Di più non si può dire della trama, per non togliere al lettore il piacere della scoperta. Ma è la scrittura, così limpida e puntuale, è la descrizione empatica dei personaggi – anche dei più riottosi – e delle loro scelte di vita, la vera sorpresa del romanzo. Lahiri riesce a penetrare la complessità di ragioni e sentimenti e farci partecipi di vicende, paesaggi e tradizioni così lontani da noi, eppure così vicini nel teatro universale della commedia umana.

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