La storia dovrebbe essere divisa in prima di Achille Occhetto e dopo Achille Occhetto. Non sto parlando della storia del Pci. Sto parlando della storia italiana. Occhetto è stato il primo, e forse il solo, a capire che un grande partito con un immenso patrimonio di legami popolari non si tiene immobile fingendo che non sia accaduto nulla, ma anche non lo si liquida nascondendo le bandiere, smontando le feste e mandando tutti a casa, con il modesto espediente che non c’è bisogno di tutta quella gente in piazza. Ecco da dove parte il nuovo e – in un certo senso – unico libro di Achille Occhetto, il suo ripercorrere gli eventi dall’origine ai giorni nostri, con lo stesso coraggio, allo stesso tempo ingenuo e visionario di allora, quando ha detto l’indimenticata frase a lungo usata contro di lui, che adesso (spiritosamente) è il titolo del libro (La gioiosa macchina da guerra, Editori Riuniti). Colpo di genio usare quella frase, tanto ridicolizzata e strappata dal suo contesto.
Cominciamo dunque dal tempo della dissoluzione dei partiti, così come li avevamo conosciuti fino a quel momento. Spostiamoci nei primi anni Novanta. È un paesaggio estremamente animato. C’era chi fuggiva dalle finestre di piazza del Gesù, gloriosa sede della Democrazia cristiana, e chi si calava dai lampioni della luce intorno all’edificio del Psi, per allontanarsi nel buio. Privilegiato da un grande accidente accaduto un po’ prima (la caduta del Muro di Berlino) Occhetto ha capito più in fretta e meglio dei pretenziosi saggi del suo partito, che in condizioni simili non puoi restare immobile e non devi fuggire. E che il cambiamento della storia non fa cambiare come camaleonti i protagonisti del prima affinché possano entrare, come nuovi, nel dopo.
Occhetto chiede visibilità fino al rischio non per dei transfughi, ma per dei protagonisti che entrano insieme a tutto il loro popolo di militanti ancora intatto, in una storia diversa in cui, però, le radici continuavano a essere la Resistenza e la Costituzione e il leader-simbolo Berlinguer. Da questo punto in poi, la sua narrazione si muove come se fosse inevitabile tenere conto della forza, della tradizione, della rispettabilità e del peso di un partito di popolo come il suo. Non prevedeva una sorta di colpo di stato interno. In esso, gli ufficiali del vecchio Pci si sono impadroniti di ciò che restava del partito (e che era molto, perché era volontario e non di convenienza, lo hanno preso in mano secondo la persuasione che tutto spetta al ceto professionale (“i professionisti della politica”) e niente all’area di ascolto politico. E hanno respinto, anche con un certo sdegno, tutti i tentativi popolari (ovvero della massa volontaria di iscritti e simpatizzanti) di tornare in piazza, di tornare a contare, persino di formare un corteo, con una bandiera e uno striscione. S’intende che un riferimento di Occhetto, il politico e di Occhetto lo scrittore, è per forza D’Alema.
Ma è vero che D’Alema (questa è un’osservazione del recensore, non dell’autore) ha avuto la forza di prevalere su tutti gli ufficiali ex Pci, nell’imporre il principio che “politica” è solo ciò che detta il Quartier generale. Tutti gli altri sono peones, in Parlamento, in piazza e nell’urna. Per forza, allora, la frase di Occhetto finisce per sembrare risibile. Svela ingenuità non sulla valutazione degli ostacoli per vincere fuori, ma su quelli ben più duri, del vincere dentro. Ovvero di contare e controllare il partito di cui, in teoria, era ancora il segretario. Giudicando da fatti che sono accaduti dopo, non credo che il destino di Occhetto, segretario deposto senza tante formalità dal circolo ufficiali del suo partito, avrebbe avuto un destino diverso. Altri estranei (vedi Romano Prodi) sono stati accompagnati all’uscita in quanto non “interni” al circolo. E la stessa sorte, fare in modo che non avessero alcuno spazio e alcun ruolo, è stato riservato a buoni e volonterosi compagni di strada che intanto si erano associati all’avventura pensando a una partecipazione politica che, invece, era stata prontamente vietata, a sinistra, sia in piazza che nel partito. E quando gradatamente quel partito è sfumato da Pds a Ds e poi a Pd, non tanto (non solo) la leadership era stata cambiata (o spinta fuori, come nel caso di Veltroni) ma era stato cambiato il “chip” della macchina. Adesso la macchina voleva la normalità impossibile della collaborazione con Berlusconi. Perciò ha tagliato via di netto una parte notevole di elettorato e trasformato in limitato sostegno locale un’altra. Resta il fatto, narrato nel libro, che Achille Occhetto ha dovuto uscire di scena senza neppure un commiato. Con fastidio per l’ingiustizia subita, ma rimpianti (ci dice nel libro) solo per ciò che poteva accadere. Ma nessuna vendetta, tranne La Gioiosa Macchina da Guerra che sta per essere pubblicato.
il Fatto Quotidiano, 24 Settembre 2013