E’ a tutti gli effetti un’operazione di sistema. Solo che al posto di salvare Telecom Italia, salverà i resti del salotto buono della finanza italiana. Intesa e Mediobanca in primis. Già perchè i soci finanziari di Telco, con l’accordo raggiunto con Telefonica, ci guadagnano. O quanto meno limitano le perdite. Del resto la storia di Telecom Italia è costellata di azionisti che incassano, mentre l’azienda viene spolpata staccando lauti dividendi e caricata di altro debito. Non molto di nuovo sotto il sole, quindi, da quel lontano 1997 quando Romano Prodi decide la privatizzazione del monopolista telefonico italiano.
Sin da subito per la cessione del 42% della società, la politica cerca uno zoccolo duro di soci amici. E lo trova nella famiglia Agnelli con Guido Rossi che, invitato da Carlo Azeglio Ciampi, diventa presidente del gruppo. Il Tesoro incassa 12 miliardi di euro. Rossi resta alla guida di Telecom solo sette mesi sostenendo di aver realizzato “l’unica vera privatizzazione d’Italia” e passa la mano a Gian Mario Rossignolo, il “very powerfull president” durato pochi mesi recentemente arrestato per “truffa ai danni dello Stato” nel luglio 2012. Risale a quegli stessi anni l’arrivo al timone di Telecom di Franco Bernabé, l’attuale presidente esecutivo del gruppo.
E’ il momento delle valutazioni stellari del mondo delle telecomunicazioni e di internet. Anche in Italia, nel 1999, si quotano a prezzi stellari società come la Tiscali di Renato Soru. Così Bernabé immagina per Telecom Italia un futuro internazionale attraverso le nozze con Deutsche Telekom per osteggiare l’Offerta pubblica di acquisto, a debito, lanciata dai capitani coraggiosi sotto la guida di Roberto Colaninno e con la neutralità del governo D’Alema. L’operazione a Bernabé va male ed è costretto a fare le valige per lasciare spazio al ragioniere di Mantova che oggi è in sella alla Vespa via Immsi. E che, soprattutto, è lo stesso che in queste ore sta trattando con Air France l’uscita da Alitalia dopo che, nel 2008, era stato il capofila dei 21 patrioti di Silvio Berlusconi che avevano rilevato le parti buone di Alitalia lasciando i resti allo Stato.
Colaninno e i suoi alleati, il finanziere di Brescia, Emilio Gnutti, e l’ex numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, oltre a Mps e Fininvest, conquistano il controllo di Telecom attraverso una scatola lussemburghese, la Bell, con il supporto della banca americana Chase Manhattan. L’operazione è benedetta dall’allora presidente del consiglio, Massimo D’Alema, che 24 ore prima dell’annuncio dell’Opa, pronuncia il celebre elogio dei “capitani coraggiosi”. Quelli che poi quando venderanno, nel 2001, il 23% di Telecom a Marco Tronchetti Provera e alla sua scatola Olimpia, incasseranno 6,65 miliardi con un guadagno netto di 1,5 miliardi di euro. Al numero uno della Pirelli, che era affiancato da Intesa e Unicredit, il controllo della società andò senza il lancio dell’offerta pubblica di acquisto a danno dei piccoli risparmiatori che non beneficiarono degli stessi guadagni di Colaninno e soci. L’enorme plusvalenza registrata da Bell, intanto, finisce sotto la lente della Procura che accerta una maxifrode fiscale. Tanto che l‘Agenzia delle Entrate finisce per comminare una multa da 1,9 miliardi, ma al Fisco arriveranno solo 156 milioni per effetto di una riduzione della sanzione.
Ma i problemi non si fermano qui. La Telecom comprata da Tronchetti ha già 35,6 miliardi di debito, cifra di gran lunga superiore agli 8,1 miliardi dell’azienda comprata da Colaninno. E ha anche perso pezzi industriali importanti come Sirti e Italtel. Il numero uno della Pirelli, alle prese oggi con la ristrutturazione del proprio gruppo, non riesce a fare meglio dei suoi predecessori. In più le quotazioni del titolo continuano a scendere per effetto dello sboom delle telecomunicazioni. Senza contare l’affaire dossieraggio della security Telecom gestita da Giuliano Tavaroli, da cui Tronchetti nel luglio scorso ha ereditato una condanna in primo grado del tribunale di Milano a un anno e otto mesi anni per ricettazione sul caso Kroll. Non molto tempo dopo l’esplosione del caso, nel 2007, complici le indiscrezioni sulle avances del re delle tlc messicane, Carlos Slim e del gruppo Usa AT&T, il numero uno della Pirelli riesce nell’impresa di cedere Olimpia e, quindi, il controllo su Telecom per 4,16 miliardi di euro, somma che valorizza la società di telecomunicazioni 2,8 euro per azione.
Ad acquistare, previo l’intervento del governo Prodi, è la holding Telco. Nell’azionariato a sorvegliare gli spagnoli di Telefonica, il trio Generali, Intesa e la Mediobanca di cui Tronchetti è oggi vicepresidente. Nel compagnie c’è pure la Sintonia dei Benetton che, oltre ad aver partecipato con entusiasmo alla privatizzazione di Autostrade e Autogrill, erano entrati in Telecom nel 2001 a sostegno di Tronchetti per uscirne con le ossa rotte nel 2010 quando si era posta la scelta tra un nuovo impegno finanziario e la registrazione dell’ennesima perdita sull’investimento iniziale. Da allora ai giorni nostri la strada è breve. La società dalla privatizzazione fino alla cessione a Tronchetti ha distribuito 21 miliardi di dividendi. Mentre oggi ha un debito da 29,9 miliardi con un asset strategico come la rete a essenziale garanzia. Questa volta, però, ad aver bisogno di aiuto non è solo Telecom. Ma anche le banche e le assicurazioni che dopo aver perso danaro a fiumi in nome del sistema, ora devono rafforzare i propri bilanci sulla scia di quanto chiesto dalle nuove regolamentazioni europee. Addio quindi operazioni a leva finanziaria. E anche ai capitani coraggiosi.