Mentre l'acquisizione del vettore italiano è sul tavolo del cda francese, Lupi rilancia il piano nazionale. Dal 1986 ad oggi tante le bozze che sono passate per le mani dei ministri. Ma dal comunista Bianchi al banchiere Passera, fino al ciellino di oggi, nessuno ha mai liberalizzato davvero. Risultato? Il monopolio Alitalia non è mai stato intaccato. Mentre i cittadini pagavano la mala-gestione
Mentre si avvicina la resa dei conti di Alitalia e la palla torna nelle mani di Air France, il ministro alle infrastrutture Maurizio Lupi rilancia il piano nazionale degli aeroporti. Un documento, la cui prima bozza è stata scritta addirittura nel 1986, per poi essere ampliata dieci anni dopo dall’allora ministro Alessandro Bianchi e rivista lo scorso anno dal collega Corrado Passera. Nel passato le coincidenze tra i salvataggi Alitalia e le riforme del sistema aeroportuale sono sempre state curiosamente incredibili. Che avvenga anche nel 2013?
Forse è presto per dirlo. Ma in genere non c’è due senza tre. Il piano di riforma di Passera del 2012 ricordava nell’essenza quello del suo predecessore. Anche se uno è più o meno liberista e l’altro comunista. Eppure entrambe hanno scelto di dettare regole e separare gli scali in base all’importanza che ciascuno di essi riveste nello scacchiere nazionale. Senza dare spazio a quanto il mercato aveva, ha e avrà da dire. Nessuno dei due ha mai dichiarato guerra ad Alitalia né dimostrato simpatia per le low cost. Passera non si è mai espresso, mentre Bianchi nel 2006 lo disse apertamente. Ecco, allora, il messaggio per il potenziale compratore di Alitalia (la trattativa per la vendita ad Air France fu portata avanti da Tommaso Padoa-Schioppa e poi fatta saltare dal governo Berlusconi): non gli chiediamo solo precise garanzie, piantando paletti alla privatizzazione, ma gli offriamo anche un mercato che cambia.
“Stiamo preparando condizioni ambientali che faciliteranno il risanamento della compagnia” disse Bianchi, giusto all’uscita del consiglio dei ministri che aveva appena dato il via libera al suo atto di indirizzo per la riforma del trasporto aereo nazionale. Il ministro che veniva dai Comunisti italiani non si fermò lì. “Abbiamo troppi aeroporti, e non ci sono regole precise sulle compagnie low cost”. Il disegno di legge prevedeva, tra l’altro, la redazione di un piano nazionale degli aeroporti mirato a garantire un ordinato e coordinato sviluppo del sistema aeroportuale nazionale integrato con gli altri atti di pianificazione esistenti. Nacque così la lista Bianchi. Gli scali con più di 5 milioni di passeggeri di competenza nazionale e gli altri a scendere. Era fine dicembre del 2006 ed erano i momenti delicati per Alitalia. Sarebbe stato importante per gli investitori privati creare una separazione tra scali e competenze. Erano i mesi in cui veniva bocciato il piano Cimoli e ci si avviava lentamente al salvataggio e poi alla successiva operazione di traghettamento verso Cai. Operazione coordinata da Intesa, a quell’epoca guidata da Passera.
Nel Def, documento economico finanziario, appena pubblicato dal governo, appare l’ultima versione del piano di riforma degli aeroporti firmato Lupi. Non è poi così diverso da quelli precedenti. Ci sono gli scali di importanza nazionale, quelli strategici e quelli necessari per la continuità territoriale. Siena, Pescara, Perugia, Forlì, Brescia, Cuneo e altri minori restano fuori dalle direttive e passeranno in esclusiva responsabilità delle Regioni. Grazzanise e Viterbo vengono di fatto stoppati. Insomma, niente fondi nazionali né infrastrutture finanziate da Roma. Al tempo stesso lo Stato si impegna a uscire dalle società di gestione con una progressiva dismissione che farà spazio ai privati. Che riassumendo significa aprire ulteriormente la strada a F2i, il fondo gestito da Vito Gamberale e partecipato dalla Cassa depositi e Prestiti. Il veicolo ha già raccolto 1,8 miliardi e ne sta cercando altri 1,2. L’obiettivo è conquistare tutto l’asse del Nord. Da Torino fino a Venezia, passando per Genova, a cui F2i ha già fatto sapere di essere interessato.
Dopo aver preso la maggioranza di Torino e Firenze alla fine del 2012, appena dopo lo sblocco (alias aumento) delle tariffe e l’ok del governo al piano miliardario di investimenti a Fiumicino gestito da Adr (l’altro grande payer), Gamberale durante l’autunno potrebbe riuscire a chiudere la linea raggiungendo le città di Milano-Bergamo-Brescia. Creando un incrocio tra la Sea (di cui F2i detiene una importante quota) e la Save che punta allo scalo di Verona attraverso la Sacbo di Bergamo. In altre parole, creare un network di aeroporti proprio come suggerisce il Def appena pubblicato. All’interno di questa strategia resta un grande punto di domanda, ovvero capire quale sarà il futuro di Malpensa. Le strade sono due. Liberalizzarla una volta per tutte mettendo sul mercato gli slot internazionali o tenerla in stand by come è avvenuto dopo il 2008 quando venne declassata per favorire la nuova vita di Alitalia-Cai, con gli impatti negativi che si sono verificati in termini di passeggeri e la mancata riforma del settore cargo.
Siamo di nuovo a un bivio. Liberalizzare o pasticciare in modo che resti un po’ di monopolio a favore di un solo vettore. Dal 2008 sino a oggi Alitalia è costata agli italiani 4,5 miliardi di euro. Il calcolo lo ha fatto Pietro Ichino considerando i debiti, l’iniezione di liquidità approvata dal Parlamento e la cassa integrazione. In più per ogni biglietto, i passeggeri pagano 4,5 euro in più di tasse per sostenere il “salvataggio” dei capitani coraggiosi di Berlusconi. Adesso speriamo che il piano di riforma degli aeroporti non lo decida né la politica locale né i francesi. Ai quali il governo, oltre a servire un altro pezzo di Alitalia su un vassoio d’argento, potrebbe regalare un mercato aeroportuale tricolore disegnato su misura per Parigi.