Con quasi un quarto di secolo di ritardo il premio Tenco arriva al “vecchio Cui“, il padre del rock cinese. La lunga marcia marcia del rock cinese, infatti parte proprio da Cui Jian. Bisogna tornare alla Pechino del 9 maggio del 1986 quando la Repubblica popolare volle organizzare un megaconcerto come quelli che si facevano in Occidente. Ideò così un gran galà con “cento star”. Tra di loro c’era uno sconosciuto ventiquattrenne, “dalla voce nasale” che cantò Non ho nulla a mio nome. Fu questa canzone a dar voce al sentimento generalizzato di incertezza e insoddisfazione che elettrizzò l’intero paese.
Qualche anno dopo si esibì nella piazza occupata dagli studenti con un panno rosso che gli bendava gli occhi. Ancora quindici giorni e quella piazza avrebbe bucato gli schermi di tutto il mondo. Le proteste di Tian’anmen furono un punto di rottura. La Cina delle riforme economiche aveva aperto il paese al capitalismo senza che quei giovani avessero più occasioni o libertà di prima. “Non ho nulla a mio nome” divenne la colonna sonora di quei giorni. Non parlava né di democrazia né di libertà di stampa, ma esprimeva un disagio in prima persona singolare. E tanto bastava a fare la differenza con il passato. Era l’alba dello yaogun, il Rock’n’roll cinese, e sembrava l’inizio di una nuova società.
Cui Jian, che nel frattempo è diventato un’icona della gioventù post-maoista, si esibisce ancora con un panno rosso sugli occhi. Un paio d’anni fa ho visto un suo concerto negli altopiani desertici della Mongolia interna. Giovani, vecchi e bambini cantavano a squarciagola tutte le sue canzoni. E tutti, nessuno escluso, sventolavano verso il palco una striscia di stoffa. Rossa.