Davanti a una fotografia possiamo farci una domanda che – di primo acchito – suona quasi ambigua: “Questa foto è lontana o è vicina?”.
La natura della fotografia, per sua e nostra fortuna un po’ anarcoide, è ribelle a definizioni e incasellamenti; dunque variabile è anche la messa a fuoco di quel “vicino o lontano”, che si può intendere con diverse accezioni.
Una si connette con la propria distanza fisica da una specifica foto. Foto che, per esempio in una mostra, può presentarsi a noi come gigantografia o, all’opposto, come sorta di miniatura. Una scelta – è chiaro – non casuale avendo, da parte dell’autore o del curatore, precise ragioni; sta di fatto che cambia comunque il rapporto personale da noi instaurato con tale immagine, in qualche modo similmente a quanto avviene, nella prossemica, tra due persone.
Una cosa è dover “prendere le distanze” da una foto enorme, indietreggiare, tornare ad immergersi tra la gente (altri visitatori, sguardi laterali, collisioni, voci…) e un’altra, al contrario, è avvicinarsi molto alla foto che – piccola – ci chiama a sé, fino a sentire il suo respiro, entrando con lei in un dialogo diretto ed esclusivo, vien da dire empatico.
Un altro approccio al senso di lontananza o vicinanza quando parliamo di una fotografia è quello legato al sentirla più o meno “nostra”. Per una serie di personali ragioni (intime, caratteriali, culturali) possiamo, istintivamente, essere più o meno colpiti, emozionati, attraversati, interessati dalla fotografia che guardiamo (e se fosse lei a guardare noi?). In tal senso la sentiremo più vicina o più distante in rapporto alla sua capacità di entrare “in risonanza” con la nostra sensibilità.
E che dire della distanza tra soggetto e fotografo quando la foto viene realizzata? Stare lontani può essere inevitabile qualche volta o una scelta qualche altra. E anche se di scelta si tratta, questa può essere libera oppure indotta (per esempio da una forma di timidezza, o dalla paura, o dalla pigrizia).
Su questo aspetto, è ineludibile la famosa citazione di Bob Capa quando afferma: ”Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino”.
Poi, a voler insistere, la distanza è anche quella del “luogo di nascita” di una fotografia.
Ovviamente si può scattare una foto sotto casa o in capo al mondo e questo, di per sé, nulla dice sulla forza del risultato. Ma – per così dire – il “chilometraggio” delle foto porta a una considerazione di tipo psicologico: spesso si tende a pensare che la lontananza dai luoghi consueti, l’esotismo di mondi remoti, il senso di avventura, lo spiazzamento, siano ingredienti quantomeno favorevoli per riuscire a fare “belle foto”.
Se però vogliamo occuparci di buone foto anziché di belle foto – posizione molto più matura e consapevole da parte di chi vuole essere fotografo – allora per mettersi alla prova basta davvero uscire in strada sotto casa, o addirittura restarci dentro, alla propria casa.
Mario Giacomelli, per fare un solo esempio, è tra i massimi fotografi che l’Italia abbia mai avuto, maestro consacrato nel mondo intero, e lo è diventato aggirandosi per lo più nei dintorni della sua Senigallia con una vecchia e malandata macchina fotografica. Foto “a chilometro zero”, le sue, vicine a chi le fa, vicine a chi le guarda.
Vicine in tutti i sensi, vicine a tutti i sensi.