‘Set up Your business’ non è uno slogan di qualche vendita on-line o il nome di un nuovo decreto legge. E’ il titolo di uno dei corsi che si frequentano al master all’università di Boston. Lo ha fatto la figlia di un mio amico qualche anno fa e non è più tornata indietro. Vogliamo proprio darle torto?
Già questa estate, dopo la vendita di Loro Piana a LVMH e ricordando i recenti casi di prestigiose aziende italiane “passate allo straniero” riflettevo su cosa stesse accadendo all’industria italiana. Di questi giorni l’ennesima puntata della saga Alitalia e la vendita di Telecom. Vorrei anche aggiungere, seppur ormai dimenticata, la vendita della Borsa Italiana al London Stock Exchange.
Davvero l’Italia è in vendita e dobbiamo prepararci ad alzare le barricate in difesa della nostra italianità, come vorrebbero alcuni? D’altra parte, il Governo non ha appena varato un decreto che si chiama Piano Destinazione Italia per attrarre i capitali stranieri? Vogliamo forse, sempre per decreto, dirgli anche cosa possono o non possono comperare ?
Il Ministro delle Finanze, abituato più allo studio dei problemi che agli slogan propagandistici, nell’affrontare il problema dell’Iva ha detto una cosa seria: basta con la propaganda; diciamo agli italiani le cose come stanno; poi prendiamo le decisioni sapendo che di soldi per finanziare le richieste di tutti non ce ne sono. Il resto è storia nota. Per le imprese italiane vendute all’estero il problema è lo stesso; basta con gli slogan e proviamo a vedere le cose per quello che sono.
In giro per il mondo ci sono capitali enormi alla continua ricerca di buone occasioni; alcune imprese italiane rappresentano delle buone opportunità di investimento e, dato il livello delle disponibilità , il prezzo può non essere un problema.
A parte il tema della disponibilità dei capitali, all’estero esiste e continua a rafforzarsi un modo di fare impresa basato sui gruppi, integrati o diversificati, ma di proporzioni tali da raggiungere quella “massa critica” ormai necessaria per operare in un contesto globalizzato. Per tale motivo alcune di queste acquisizioni hanno una valenza più industriale che meramente finanziaria e servono davvero a perseguire delle strategie. Da noi abbiamo sostenuto per anni che “piccolo è bello” e che la piccola-media industria è la spina dorsale dell’economia ed abbiamo così definitivamente perso la capacità di competere a livello internazionale.
Da sempre e con tutti i governi, è mancata in Italia una seria politica industriale che definisse i settori strategici per lo sviluppo economico del Paese, la perseguisse con continuità affidandola a manager capaci e non a soggetti incompetenti ma politicamente graditi e punisse in modo chiaro ogni errore o deviazione. La conseguenza adesso è che ci domandiamo cosa accadrà dei nostri cd. “settori strategici” che, ormai in mano a imprese straniere, non necessariamente vorranno più garantire, a livello locale, ricerca, sviluppo, occupazione.
La cultura dominante di molti dei Paesi che vengono in Italia per acquistare le nostre aziende è basata sulla capacità di fare e di innovare : set up Your business. Da noi, causa la crisi, la burocrazia, il regime fiscale, etc. il saldo netto tra aziende che nascono e aziende che muoiono è negativo e per molti di quelli che resistono (e risiedono in Lombardia) l’obiettivo è trasferire l’azienda in Svizzera.
In aggiunta ed in parte a causa di tutto ciò, sta costantemente venendo meno la motivazione delle nuove generazioni nel portare avanti le aziende di famiglia; fattori culturali, capacità, motivazione, attitudine al rischio, mancanza di management indipendente e competente. In certi casi (molti) meglio vendere e dividere che litigare e fallire.
Soprattutto è arrivato alla sua fase critica il modello di un capitalismo senza né capitali, né imprenditori, dove le operazioni erano “operazioni di sistema”, decise a livello politico e realizzate da “soggetti di sistema” talvolta a prescindere dal senso economico dell’iniziativa. I soldi e le motivazioni per fare queste operazioni sono ormai finiti ed ecco che arrivano gli stranieri che però il senso economico ce l’hanno e comperano quello che vale e ci lasciano quello che non vale, contribuendo così ad aggravare il problema.
Ma il tema da affrontare non è solo quello delle aziende che vengono vendute all’estero, con le relative conseguenze per l’occupazione, per il futuro di queste realtà e per l’immagine ed il futuro industriale del Paese. Purtroppo , di fronte a fatti come quelli sopra descritti, nell’immediato temo si possa fare ben poco e mi auguro che non vengano più proposte “soluzioni politiche” tipo intervento dello Stato, dei suoi paladini o altro.
Il problema vero è che a fronte di realtà industriali che chiudono o vengono vendute non c’è alcun ricambio e alcuna iniziativa. L’innovazione viene ormai da est e da ovest, da culture dove il mettersi in gioco e nel caso fallire, non è una condanna morale ma la condizione necessaria affinché tra i tanti emergano quelli con le idee migliori o con la migliore capacità di realizzarle. Dove, a condizione di meritarlo, lo Stato ti aiuta quando studi, quando inizi, quando devi crescere, ma non quando hai sbagliato ma ormai ti deve salvare a tutti i costi.
“Start up” è un termine che rappresenta una condizione naturale per le aziende, un attributo che indica che qualcuno sta provando a fondare una nuova impresa e che ha bisogno di sostegno. Sono certo che esiste qualcosa di simile anche in cinese, indiano, o brasiliano. In Italia una volta un funzionario di una banca mi suggerì di togliere dalla ragione sociale dell’azienda che stavo seguendo la parola “New”. Il solo fatto che si facesse riferimento a qualcosa di nuovo rappresentava un freno alla concessione di un possibile finanziamento.
In conclusione, non vorrei che il dibattito di questi giorni, ancora una volta basato su contrapposizioni e slogan, servisse solo da un lato a salvaguardare, come per l’Alitalia nel 2008, posizioni di potere portate avanti a danno dello Stato e dall’altra a nascondere l’incapacità ormai strutturale di fare impresa in Italia.