Tre anni fa, quando ho traslocato, mi sono premurato di accogliere con tutti gli onori il tecnico Telecom che mi avrebbe attivato la connessione internet. Vivo a pochi km da Milano e, di conseguenza, non ho diritto alla fibra (sigh) ma alla semplice Adsl. Visto che la connessione più diffusa in Italia viaggia su doppino, avevo ben presente l’importanza di un collegamento fatto con tutti i crismi. Tanto più che avendo un abbonamento con un altro operatore, dubitavo fortemente che l’efficienza del collegamento potesse essere una sua reale priorità. All’arrivo del tecnico, gli spiego la mia condizione: lavoro da casa e ho bisogno di una connessione che funzioni decentemente. Il valoroso tecnico si dimostra comprensivo e mi assicura che farà tutto il possibile per farmi avere un’Adsl che funzioni al meglio. Si comincia.
Il palazzo è vecchiotto e la presa del telefono è nella camera da letto. Da lì il cavo corre lungo il muro esterno, attraversa il cortile e arriva al primo armadietto. Scendiamo in strada e, mentre il valente tecnico cerca una chiave per aprire lo sportello, noto che l’armadietto è aperto. Già: la serratura è rotta col corollario di uno sportello sempre aperto (pioggia e neve sono le benvenute) e una serie di contatti visibilmente ossidati. Da qui parte l’odissea. Nell’armadietto ci sono almeno 200 linee e i collegamenti dei doppini, mi spiega il simpatico tecnico, sono teoricamente identificati da una coppia di numeri. Non tutti, però, usano lo stesso metodo e bisogna capire se i numeri si riferiscano alle righe, alle colonne o siano inseriti in sequenza. Mi spiega che ogni collega scrive a matita all’interno dell’armadietto le “istruzioni per l’uso”, ma che in questo caso specifico sembra che nessuno abbia lasciato la soluzione dell’enigma. Cominciamo quindi ad andare a tentativi, lui armato di cacciavite e io con in mano il cellulare. A un certo punto, con mio grande sconcerto, mi chiede addirittura se conosco il numero di telefono di un paio di vicini, per fare qualche esperimento e cercare di capire quale possa essere il contatto giusto.
Trovato (miracolosamente) il collegamento, si passa al secondo armadietto per completare l’allacciamento. Stessa storia: sportello rotto e “infrastruttura” degradata dall’esposizione agli elementi. A questo punto sono perfettamente consapevole che le mie velleità di avere una connessione efficiente sono affondate. Mi rassegno, ringrazio il tecnico e mi “godo” la mia Adsl (che ovviamente viaggia a una misera percentuale della velocità promessa) senza recriminare troppo. Con quello che ho visto, è un miracolo che qualche bit riesca ad attraversare il globo per portare sul mio schermo una pagina web.
Ecco, se questa fosse l’italianità a cui dobbiamo dire addio con la cessione di Telecom a Telefonica, non ci sarebbe poi molto da disperarsi. La verità, però, è un’altra. Parliamoci chiaro: l’unica possibilità che avevamo di colmare il famigerato gap tecnologico attraverso Telecom era quella di nazionalizzarla e avviare un programma di investimenti per ammodernare le patetiche infrastrutture di casa nostra. Qualcosa di simile all’operazione di scorporo della rete che si stava prospettando con l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti. Perché il problema non è quello di avere un’azienda italiana, spagnola o della Papua Nuova Guinea. Il problema è che un privato che gestisce in situazione di monopolio di fatto la rete fisica (qualcuno ha le risorse per cablare con la fibra tutta Italia e mettere in difficoltà Telecom?) non ha nessun interesse a innovarla, migliorarla o modificarla. Si limita a spremere il maggior guadagno possibile fregandosene allegramente dell’arretratezza del paese e delle possibilità di sviluppo del digitale.
Il presidente Letta ha detto che i capitali non hanno passaporto. Gli interessi sì. Ci rifletta.