Diritti

Diritti umani, Amnesty: “In Parlamento restano vizi e tabù passati”

Sebbene l'Italia da un lato abbia confermato gli impegni, quando si tratta di relazioni bilaterali tende a metterli da parte in nome degli affari. Al dinamismo in aula fa da contraltare il vecchio conservazionismo. Venticinque anni di tentativi per introdurre il reato di tortura nell'ordinamento italiano sono un esempio

È un avvio in chiaroscuro quella che emerge nel bilancio dei primi sei mesi di legislatura in tema di tutela dei diritti umani fatto da Amnesty International. C’è un Parlamento in cui si parla di più, e complessivamente meglio, di questi argomenti, grazie all’azione delle associazioni e forse perché deputati e senatori sono in linea con il sentire di settori della società. Da febbraio sono stati avanzati disegni di legge in materia, ma restano “vizi e tabù passati”, come nel caso della definizione di tortura per cui ancora ci si ostina a voler modificare quella adottata dalle Nazioni Unite. Inoltre sebbene l’Italia da un lato abbia confermato gli impegni per la tutela dei diritti sul piano multilaterale, quando si tratta di relazioni bilaterali tende a metterli da parte in nome degli affari. E in questo caso il caso libico è da manuale. 

Lo scorso gennaio, quando mancava un mese alle elezioni, l’organizzazione lanciò la campagna “Ricordati che devi rispondere” e propose un’agenda in dieci punti cui hanno aderito in tutto o in parte i leader delle coalizioni che si sono presentate al voto e 380 candidati, 117 dei quali hanno avuto uno seggio parlamentare. Trascorsi sei mesi, proprio nel giorno in cui cadeva (25 settembre) l’ottavo anniversario dell’omicidio di Federico Aldovrandi, ucciso a 18 anni durante un controllo di polizia, è arrivata l’ora di tirare le prime somme e ricordare a deputati, senatori e leader che devono dare risposte. Con un parlamentare su otto che ha aderito alla campagna “per la prima volta” il tema della tutela dei diritti umani è entrato non soltanto nei dibatti di campagna elettorale, ma nell’azione sia delle camere sia del governo. Il risultato è che dall’inizio della legislatura è stato presentato almeno un disegno di legge sui punti sollevati da Amnesty. 

Ricordati per sommi capi chiedeva ai firmatari di impegnarsi a garantire la trasparenza delle forze di polizia e introdurre il reato di tortura; di fermare il femminicidio, considerato non più un emergenza, ma un fenomeno strutturale della realtà italiana e perciò ancora più preoccupante; proteggere i rifugiati, di fermare lo sfruttamento e la criminalizzazione dei migranti e sospendere gli accordi con la Libia sul controllo dell’immigrazione. E ancora di assicurare condizioni dignitose e rispettose dei diritti umani nelle carceri; combattere l’omofobia e la transfobia e garantire tutti i diritti umani alle persone Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate); fermare la discriminazione, gli sgomberi forzati e la segregazione etnica dei rom. Chiedevano inoltre di creare un’istituzione nazionale indipendente per la protezione dei diritti umani; imporre alle multinazionali italiane il rispetto dei diritti umani; lottare contro la pena di morte nel mondo e promuovere i diritti umani nei rapporti con gli altri Stati; garantire il controllo sul commercio delle armi favorendo l’adozione di un trattato internazionale.

Al dinamismo in aula, come ha ricordato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, fa da contraltare il vecchio conservazionismo. Venticinque anni di tentativi per introdurre il reato di tortura nell’ordinamento italiano sono un esempio. Nell’ultimo testo in discussione al Senato la definizione di tortura è difforme da quella accettata a livello internazionale. “Basterebbe fare un copia-incolla”, spiegano da Amnesty. Invece, come denunciato già nei scorsi assieme all’associazione Antigone, secondo il testo presentato lo scorso 17 settembre dal relatore Nico D’Ascola, del Pdl, per parlare di tortura devono essere commessi “più atti di violenza o di minaccia”. Si dovesse trattare di uno soltanto si potrebbe evitare la condanna. Una formulazione che ricorda quanto proposto nel 2004 dalla leghista Carolina Lussana, che affondò l’introduzione del reato.

Altro vizio del passato, o meglio una macchia che perdura senza soluzione di continuità sotto governi di segno diverso, è il rapporto con la Libia.”Gli accordi sul controllo dell’immigrazione non risultano essere stati sospesi né, almeno, rimessi in discussione. Al contrario, le relazioni in questo campo sembrano essere state riattivate a tutti i livelli”, scrive Amnesty che nel corso delle missioni in territorio libico nella scorsa primavera è venuta a conoscenza dell’intenzione del ministero dell’Interno italiano di finanziare l’ammodernamento di alcuni centri di trattenimento per migranti. Un sostegno che renderebbe l’Italia complice nella detenzione arbitraria e a tempo indeterminato dei migranti.

Altre note dolenti sono l’aver ceduto alle pressioni kazake sul caso del rimpatrio di Alma Shalabayeva e della figlia Alua o il recente viaggio a Baku del primo ministro Enrico Letta, durante i quali gli interessi energetici hanno messo in secondo piano la repressione degli oppositori nell’ex repubblica sovietica.  

Certo l’Italia ha rinnovato l’impegno per la moratoria sulla pena di morte, ha ratificato la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, procede nell’approvazione alla Camera del disegno di legge di ratifica del Trattato Onu sul commercio di armi. A differenza di quanto spesso si ritiene questi non sono punti d’arrivo, ma d’inizio. L’importante è attuare quanto stabilito.

di Andrea Pira