Qualche settimana fa, sono stata sul molo Giano, al porto di Genova. Giugno scorso, a più di un mese dalla tragedia. Non c’era più niente, su quel molo, che la ricordasse. La Jolly Nero è stata portata via dopo pochissimi giorni. Le macerie sono state traslate, e nemmeno sott’acqua si intravedeva niente. Tutto pulito. Tutto rinfrescato. Sono stata accompagnata sul posto, dal primo uomo che fu chiamato quella notte, appena è arrivata la voce a terra di quello che stava accadendo. Lui stesso, non voleva credere a quello era successo: in pochi si facevano domande, in pochi ponevano le questioni a chi doveva rispondere, sui giornali pochissimi articoli, le tv non erano quasi mai sul posto (non c’era, non c’è niente di spettacolare da inquadrare!).

Eppure, il giallo c’era, c’è… ma neanche i parenti delle vittime parlavano. I nomi uscivano sotto traccia, l’ordine era di non parlare. Lì, a giugno quando sono andata io, e ancora oggi, nessuno riesce a spiegarsi come sia stato possibile che quella dannata sera del 7 maggio abbiano potuto trovare la morte nove persone. 

Dopo quella notte, tante certezze e consuetudini sono crollate insieme alla torre di controllo del porto di Genova. Come ad esempio la consuetudine che le navi uscissero dal porto ligure dovendo procedere con una “delicata” marcia indietro, la Jolly Nero – lunga 329 metri e larga 30, con un peso netto di 17mila tonnellate e un peso di dislocamento di 40mila – secondo le ricostruzioni pare invece abbia optato per una manovra azzardata che ha dunque causato l’inevitabile collisione con la torre di controllo.

L’inchiesta aperta dalla Procura di Genova vede attualmente come principali indagati il comandante della nave container Roberto Paoloni, il pilota Antonio Anfossi, e il primo ufficiale Lorenzo Repetto, oltre a Giampaolo Olmetti, comandante dell’Ufficio Armamento della Messina. E’ notizia (piccola nei quotidiani, forse un box) di queste ore che è stata depositata in procura la trascrizione integrale delle comunicazioni in plancia della Jolly Nero, in cui il comandante chiedeva al pilota se il motore era a posto e riceveva come risposta “sì sì”, quando invece aveva avuto problemi già in partenza.

Le indagini della procura sono ancora in corso e non possiamo che attenderne l’adeguato svolgimento nella consapevolezza (speranza) che verrà fatta giustizia. Certamente l’adempimento della giustizia non restituirà ai propri cari quelle nove vite che hanno pagato a caro prezzo ciò che probabilmente è stato un errore evitabile. Tutto scorre, e l’unico gesto nobile e positivo che può essere intrapreso è la ricerca della verità, delle cause e concause che hanno generato una tale tragedia. Per garantire in futuro che il diritto alla vita e alla sicurezza vengano messi sempre al primo posto.

Proprio questi diritti vengono scanditi da Adele Chiello, la madre di Giuseppe Tusa, 30 anni, di Milazzo, marinaio della Guardia Costiera e radarista della torre di controllo del porto di Genova, una delle nove vittime della tragedia di Molo Giano. Lei è l’ultima, in ordine temporale, delle poche persone che hanno gridato a gran voce di fare chiarezza sulla vicenda: “Pretendo delle risposte!”, dice. Ha ragione. Non si capisce perché questa tragedia sia passata inosservata per diversi media. E’ davvero insopportabile che un ragazzo come Giuseppe, figlio dell’Italia e impiegato dello Stato, possa trovare la morte a soli 30 anni sul proprio posto lavoro. E se non se ne parla, è come se non fosse successo. 

 

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