“Vi confermo l’arrivo della Renault 4 al porto di Buenos Aires per le prime ore del 21 settembre. E’ importante che vi rechiate entro quella data all’ufficio di corrispondenza della Gomes & Co al porto di Buenos Aires per completare le formalità doganali. Saludos”. Che cosa fossero queste formalità, di cui don Luis Miguel non ci aveva fatto cenno, Pedro nell’sms non lo spiegava. Ma non era il caso di farsi troppe domande. Dopo essere rimasti bloccati per due giorni a Pelotas, non c’era più un minuto da perdere. Quell’arco dal sereno al fortunale cantato da Paolo Conte in Sudamerica continuiamo a vederlo con i nostri occhi dalla finestra della stanzetta all’Hotel Aleppo in cui siamo barricati da due giorni. Crollo delle temperature, 48 ore di pioggia ininterrotta, strade allagate, emergenza inondazioni ormai ufficiale e conseguente blocco dei servizi di autotrasporto.
Solo all’alba del terzo giorno riusciamo a imbarcarci sul postale assai spartano che tra buche e guadi ci conduce a Jaguarao, ancora 150 chilometri più a Sud, proprio sul confine con l’Uruguay. A Jaguarao bisogna andare sulla fiducia; piove sempre che Dio la manda, e così fitto che non riusciamo nemmeno a distinguere se ci sia o no il paese. La stazione rodoviaria però c’è (foto 1), e lì ci attendono una buona e una cattiva notizia.
La buona notizia è che alle 13.30, più o meno dopo una mezz’ora, è confermato il Montevideo Express, ovviamente l’unico del giorno. La cattiva notizia è che l’espresso per Montevideo non parte da Jaguarao, ma da Rio Branco. In teoria, un tiro di schioppo, se non fosse che c’è da oltrepassare proprio il Rio Branco, il fiume che che segna il confine tra Brasile e Uruguay, con tanto di lapide a metà del ponte tra le due rive. Saliamo sull’unico taxi in attesa sul piazzale e via, alla speraindio. Ma appena al di là della frontiera ci attende una coda di auto immobili sotto la pioggia, in attesa di passare i controlli dell’Immigracion (foto 2). E’ evidente che nonce la faremo mai a raggiungere in tempo la stazione e a prendere il Montevideo Express. Ciò significa che ci attendono altre 24 ore di stop in questo minuscolo villaggio, dove con ogni probabilità non esistono alberghi.
Riveliamo il nostro dramma al taxista brasiliano, e gli chiediamo di riportarci a Jaguarao, ma lui, disponibile e quasi premuroso come tutti i suoi connazionali che abbiamo incontrato fin qui, non si scompone: “Se volete, possiamo girare a destra e saltare la coda all’immigrazione”. A sentir lui, niente di più semplice. Anzi, se la ride del nostro stupore. I doganieri uruguayani lo conoscono, gli capita di fare il percorso anche 10 volte al giorno per accompagnare i pendolari, che problema c’è. Possibile? Ancora traumatizzati dall’esperienza di Ceuta ci pare impossibile, eppure è proprio così.
E questa, come ci renderemo conto in altre occasioni, è una caratteristica dell’America Latina. L’improbabile non è poi così improbabile, o almeno non più del cosiddetto “probabile”. Come hanno raccontato i suoi più grandi scrittori, qui la magia è un prodotto locale, e non tanto come fede nel soprannaturale, ma al contrario come ingrediente della vita quotidiana. Se ti metti a tirare le righe con il righello e i conti con la calcolatrice, non ti torneranno mai. Ma decidi di giocartela, probabile e improbabile se la giocano quasi alla pari.
Incassato il nostro scettico ok, il taxista brasileiro si sottrae alla fila mettendosi sulla corsia di sorpasso poi, giunto alla fine del ponte imbocca un’altra strada, che di lì a poco, dopo un paio di svolte si rivela la strada principale di Rio Branco. Sapevamo che le frontiere dei paesi del Mercosur sono permeabili, ma non immaginavamo fino a questo punto. Diventare clandestini a Rio Branco è stato molto più semplice che entrarci regolarmente. E dopo avere rischiato di non poter entrare in Brasile per la mancanza di un biglietto di uscita, ora ne usciamo alla chetichella, senza essere degnati di un ciao stronzi, ed entriamo nella Repubblica Orientale dell’Uruguay.
Il Montevideo Express è lì, con il motore già acceso, e abbiamo giusto in tempo per pagare in dollari due posti sul pullman che dovrebbe metterci in salvo da altre inondazioni e altri ritardi. Ci vogliono otto ore per percorrere i 420 chilometri da Rio Branco a Montevideo, ma intanto siamo certi di arrivare e ci restano due interi giorni per goderci la capitale dell’Uruguay prima di prendere il traghetto per Buenos Aires e correre al porto, ad accogliere la Rabmobile.
Gli dèi sono stati generosi permettendoci di prendere al volo questo barcollante autobus della compagnia Rua de la Plata, che di espresso ha davvero poco. Il paesaggio non cambia e il tempo nemmeno; stringendo le pupille oltre i vetri gelidi, che è impossibile liberare dall’appannamento, notiamo come la stretta striscia di asfalto sia la sola cosa sopra il livello dell’acqua; oltre di essa il cielo basso e gonfio, le fattorie, gli animali al pascolo, le praterie fradicie, i rari villaggi e tutto il resto sembra sprofondare in un unico vapore grigio (foto 3). L’arco dal sereno al fortunale non si è ancora chiuso e spiace doverlo constatare, ma nella pampa sconfinata c’è una palta sconfinata.