Matteo Oppici, 39 anni, vive dal 2011 nella capitale del dragone dove importa elettrodomestici. Per il suoi clienti lo status symbol è una ragione di vita. "Pensano che gli italiani non siano grandi lavoratori. E i nostri politici non godono di buona fama"
A Pechino se dici Italia, dici design. La merce di qualità, invece, è solo quella tedesca. “Un prodotto fatto in Germania non ha bisogno di pubblicità, i cinesi sanno che vanno sul sicuro e lo comprano al volo”. Matteo Oppici, 39 anni, vive dal 2011 nella capitale del dragone e con la reputazione del suo Paese ci deve fare i conti tutti i giorni. “Lavoro per una ditta locale che importa elettrodomestici da Stati Uniti, Germania e in particolare dall’Italia”.
Nello specifico, Matteo si occupa di marketing, otto ore al giorno (dalle 8.30 alle 17.30) dal lunedì al venerdì. È assunto con un contratto a tempo determinato, che si rinnova ogni due anni (“ma sono sicuro di non perdere il posto”, sottolinea lui). Guadagna 4.500 euro al mese, non deve neanche pagare l’affitto dell’appartamento, che è a spese dell’azienda. “Di noi pensano che non siamo dei gran lavoratori, che facciamo la bella vita. Anche la politica non gode di buona fama: in bocca hanno solo gli scandali di Berlusconi e il nostro debito pubblico”. Giudizi che gli fanno male e che lui prova ogni volta a smentire. “Spiego loro che in Europa siamo quelli con gli orari di lavoro più lunghi, che non è raro stare in ufficio anche nei week end (qui, a parte gli operai nelle fabbriche, non si tirano il collo), che l’organizzazione del lavoro è migliore della loro”. In Cina più che altro si improvvisa “ma la mole di lavoro è così tanta da travolgerti e non farti più vedere le imperfezioni”.
Ecco perché Matteo ha deciso di trasferirsi nel Paese del boom economico, dove c’è fame di tutto, si investe ovunque e c’è la gente disposta a qualsiasi sacrificio pur di scalare la piramide sociale e ostentare ricchezze. Il target dei suoi clienti è molto alto: per loro lo status symbol è una ragione di vita. “Serviamo imprenditori e manager straricchi con ville da 500 a 2.500 metri quadrati. Di solito hanno due cucine, quella cinese tradizionale e la ‘western kitchen’, cioè quella occidentale. In questa mettono il forno, non lo accendono però, lo usano piuttosto per ficcarci dentro piatti o libri”.
Per dire: le abitudini sono dure a morire e le lezioni di Matteo su arte e storia del prodotto, che abbina alle vendite, non bastano mai. Il cibo italiano lo apprezzano ma preferiscono mangiare cinese. Il supermercato è la Mecca della merce contraffatta. “Di originale si trovano molti alimenti spagnoli e tedeschi. Noi, invece, non siamo abbastanza bravi a promuovere il made in Italy”, ammette senza riserve Matteo. Sulle strade di Pechino circolano per lo più auto teutoniche. I marchi italiani sono più forti nel campo della moda, ma le etichettature false non sono un mistero. “Per loro è scontato imitare, l’invenzione è un tabù, sono molto critici verso se stessi, ma sulle importazioni impongono dazi del 30/40 percento disincentivando i commercianti stranieri”. Non è l’unico problema che hanno: “Sono diffidenti, per questo di fianco al prezzo dell’articolo deve essere indicata anche la provenienza. Poi hanno poca praticità: devi dare istruzioni su tutto, comprese le commissioni, per cui serve avvisare il cliente dell’orario di consegna. Se alla fine non voglio sorprese devo arrangiarmi da solo e delegare il meno possibile”.
Ultimo difetto che però non dà meno filo da torcere: la superstizione. “Il quattro significa ‘morte’. Sono disposti a pagare 20 euro per non averlo nel numero di telefono o sulla targa della macchina. Nel mio palazzo, per esempio, hanno tolto i piani 4, 14 e 24, così io vivo al 23esimo e non al 26esimo”. L’inquinamento ambientale e la dipendenza da taxi e mezzi pubblici, visto che per comprare un’auto bisogna essere sorteggiati, non lo scoraggiano. Anzi, Matteo qui ci sta bene e non ha nessuna intenzione di ritornare in Italia. Prima di partire, lavorava in provincia di Reggio Emilia per un’importante azienda italiana di elettrodomestici. Prendeva duemila euro al mese ma già si preannunciava un calo delle vendite e ha pensato di andarsene subito prima di essere travolto dalla crisi. Che l’Italia non fosse più un bengodi lo aveva capito ancora prima di affacciarsi sul mercato del lavoro. “Mi sono laureato in ingegneria elettronica ma sapevo già che mi sarei dedicato ad altro perché l’Italia non punta sulla ricerca e non avrei avuto futuro”. Così si è buttato nel marketing. Per fortuna con un lieto fine.